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lunedì 5 maggio 2003

Il sogno del prigioniero

Se riesce a prender sonno, fa sempre lo stesso sogno: corre, corre in un prato che arriva fino all’orizzonte, corre libero, finché non inciampa e cade.
Quando si rialza c’è un uomo orribile, calvo, sudato, che porge una mano. “Questo terreno non è edificabile, però potremmo dare una riaggiustatina al piano regolatore…”


Forse tutti non sanno che la famosa lettera di Berlusconi al Foglio, nella sua prima stesura, era molto diversa da come è stata poi pubblicata.
La redazione di Leonardo (che ne sa sempre una più del diavolo), è giunta in possesso di questa prima stesura, e non esita a pubblicarla:

Caro direttore, scrivo a lei perché il suo giornale è stato l'unico a ricordare i due giorni terribili della democrazia italiana, il 29 e il 30 aprile el 1993. Il 29 aprile di dieci anni fa un uomo di Stato, simbolo di una classe politica ormai irrecuperabilmente invisa alla pubblica opinione, Bettino Craxi, fu sottoposto al voto segreto della Camera dei deputati. In quei due giorni molti italiani hanno creduto di sentire i rintocchi funebri per la Prima Repubblica, e hanno festeggiato la fine di un regime corrotto e illiberale, in mano a una cricca di politici senza scrupoli e senza vergogna.

Tra questi italiani c’ero anche io, che a quel tempo ero ancora un imprenditore. Io, che col malaffare imperante della Prima Repubblica ho dovuto imparare a convivere, sin da quando muovevo i miei primi passi nel mondo dell’edilizia, e poi della televisione, del mercato pubblicitario, della finanza, dell’editoria, del calcio. Sì, non ero che un imprenditore che amava il suo Paese e credeva di poterlo rendere più bello e più moderno: credevo nella concorrenza e nel libero mercato. Chi mi ritiene responsabile di questa degenerazione, non mi fa giustizia. Molto prima che io diventassi il monopolista che sono dovuto diventare, la bustarella era già la prassi consolidata delle trattative tra imprenditoria e pubblica amministrazione. Non sono certo stato io a introdurla, né avevo il potere di sottrarmi all’abbraccio dei vari Craxi, Forlani, Andreotti, che avevano il potere di strangolarmi.

Per questo mi sento di affermare in piena coscienza che io, alla stregua di tanti italiani, non sono stato un complice, ma una vittima. I miei successi nel mondo dell’edilizia, dell’editoria, dello spettacolo, non sarebbero stati ancora più eclatanti, se ottenuti in un libero mercato, senza la necessità di oliare a ogni passaggio fior di politici, amministratori, giudici e altri intermediari? La prima Repubblica è stata, per me, per noi che l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle, un lungo incubo, dal quale ci sembrò di svegliarci il 29 aprile del 1993.

Pia illusione, caro direttore. Il 30 aprile del 1993 cominciava soltanto la seconda parte dell’incubo, ancora più spaventevole e affannosa. La persecuzione, il ricatto. Il clima di linciaggio creatosi in quei giorni non tardò a riversarsi su chi, come me, era considerato a torto o a ragione (a mio avviso a torto) complice del sistema. Per far fronte alle accuse e alle minacce, non ho trovato altro modo che scendere in politica, come lei ben sa, malgrado la mia scarsa attitudine in questo campo. A malincuore ho dovuto separarmi dalla gestione delle mie imprese, che a tutt’oggi restano il mio principale interesse: e pure di questo vengo quotidianamente rimproverato dalla stampa di tutto il mondo. E forse non a torto. La mia vita è divenuta un’interminabile gioco al rilancio, e forse – temo – un tragico bluff. Per salvare le mie aziende ho dovuto corrompere i politici; per salvare me e i politici corrotti dalle accuse di malversazione, ho dovuto inventarmi statista. E in un modo o nell’altro, ce l’ho quasi fatta.

Ma oggi sono stanco, e malato, e non ho più il cuore di continuare con questa finzione. Leggo che Previti è stato condannato per corruzione: non posso che rallegrarmene. Sì, caro direttore: so che per una questione di correttezza e di decoro istirtuzionale dovrei attendere appelli, contrappelli e cassazione prima di esternare la mia soddisfazione. Ma se conosco bene quell’uomo so che la tirerà ancora per le lunghe: venti, trent’anni, forse, e io sono vecchio. E se sono invecchiato anzitempo, è colpa di personaggi odiosi come Previti, simboli di un malaffare e di un’arroganza che non sono affatto tramontati dopo il 1993: iene senza scrupoli e senza vergogna che ancora oggi mi ricattano e pretendono riforme della giustizia ad personam. È tempo che io mi chiami fuori da questo gioco, forse veramente più grande di me. Cada Berlusconi, dunque, con tutti i filistei, lacchè infidi e infami come Previti. So solo io quanto quell’uomo mi abbia fatto soffrire: eppure ho la presunzione di credere che la Storia mi assolverà. Non sono che un uomo che ha ritenuto giusto venire a patti con la Bestia, che non ha mai smesso di lottare, e che oggi, constatata l’impossibilità fisica a continuare, si arrende.

Le anticipo dunque che nella giornata di domani rassegnerò le mie dimissioni da Presidente del Consiglio dei Ministri a Carlo Azeglio Ciampi. La ringrazio per la sua fedeltà e per la sua comprensione. Suo

Silvio Berlusconi


“Sì, pronto?”
“Cara, sono io”.
“Tu? A quest’ora? Ma che fai ancora alzato?”
“È una cosa importante, cara, e non mi fido di nessuno a parte te. Vedi, ho scritto una lettera per il Foglio… hai presente, il giornale di Ferrara”.
“Certo che ho presente, tesoro. È il mio giornale”.
“Ah, già, che stupido, scusa. È una lettera molto importante, e vorrei che gliela portassi tu, domattina”.
“Ma tesoro, qui mica abbiamo il fax!”
“Niente fax. Non mi fido di nessuno. Vorrei dettartela. Ti dispiace?”
“Ma… sei sicuro di stare bene?”
“È da tanto che non mi sentivo così. Hai carta e penna? Dunque: Caro direttore… stai scrivendo?”
“Sì. Ah, prima che mi dimentichi… ti saluta Marcello”.
Scrivo a lei perché il suo giornale… Un attimo, cos’hai detto? Chi mi saluta?”
“Marcello. È passato di qui in giornata”.
“E perché è passato di lì? Lo sapeva che non c’ero!”
“È venuto a salutarmi, è sempre tanto carino. Ah, e poi mi ha lasciato una lettera. Ha detto che la dovevi rispedire tu al Foglio, che era molto importante”.
“Una lettera? L’hai lì?”
“Vuoi che la apro?”
“N… sì, sì, aprila, è meglio”.
“Ci sono due biglietti, uno scritto a mano, uno dattiloscritto… quello a mano: Caro S. Ho pensato che per mantenere alta la tensione potresti scrivere una lettera al Foglio in cui accusi la magistratura e rivendichi l’eredità morale di Craxi. E già che c’ero ho pensato di scrivertela, così non perdiamo tempo. Ti saluta la Famiglia, Marcello”.
“Cosa c’è scritto alla fine”.
“Ti saluta la Famiglia”.
"Con la F minuscola?"
"Maiuscola".
“Ah”.
“Va tutto bene, tesoro?”
“Sì, sì, va tutto bene”.
“Stavi dicendo: scrivo a lei perché il suo giornale…”
“Lascia perdere. Non ci serve più. Ci ha già pensato Marcello, non hai visto?”
“Ah, già, vero. È sempre tanto carino”.
“Proprio tanto carino, sì”.
“Ma che cos’hai? Ti sei abbattuto tutto d’un colpo!”
“E cosa vuoi mai, Veronica, sono stanco. Sono un vecchio stanco”.
“Ma non dire così, andiamo”.
“È la pura verità. Vabbè. Ci risentiamo”.
“Sogni d’oro”.
“Se riesco a prender sonno, sì”.

(Se riesce a prender sonno, fa sempre lo stesso sogno: corre, corre in un prato che arriva fino all’orizzonte, corre libero, finché non inciampa e cade…)

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