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giovedì 8 aprile 2004

Lethal Weapon, 5

The Passion of the Christ è un film perverso.
Qui non è questione di sangue, chiodi, gatto a nove code. Di tutti i Gesù cinematografici, è indubbiamente il più splatter, perfettamente in linea con l’arte di Mel Gibson: quando per accomodare Gesù sulla croce i legionari gli tirano le braccia fino a incrinargli le costole, viene subito in mente Arma Letale. Ma in fondo, perché no? Se c'è piaciuto Jesus Christ Superstar possiamo anche provare Jesus, The Lethal Weapon. Purché sia chiaro che si tratta della libera interpretazione di un cineasta.

Invece questo è un film con delle pretese. Vorrebbe essere aderente al testo evangelico. Vorrebbe essere iper-realistico, raccontare la Passione “as it was”. Gibson non è il solito eretico alla Pasolini o alla Scorsese, no: lui si vende come il cineasta della Sacra Chiesa Cattolica Apostolica, con tanto di imprimatur. Vedi la storia per cui, quando il film è stato proiettato in Vaticano, il Papa avrebbe esclamato proprio “it is as it was”. Balla sapientemente propagata dall’ufficio stampa e più volte smentita. Tanto ormai l’effetto era ottenuto: mobilitare le comunità cattoliche ai botteghini.

Bene, è il caso di dirlo: le comunità cattoliche sono state truffate (come del resto le comunità protestanti e perfino quelle islamiche, che in Medio Oriente stanno apprezzando molto il film sul martirio del noto profeta palestinese). The Passion non è la Passione “as it was”. Non è nemmeno la Passione com’è raccontata sui Vangeli. Quello di Gibson è il Vangelo meno realistico e più apocrifo di tutti.

Cominciamo da una piccola cosa: la pronuncia. Si sa che gli attori hanno recitato in due lingue morte, l’aramaico e il latino. Il tutto per dare al film una maggiore “impressione di realtà”. È una sciocchezza, uno specchietto per le allodole, un trucco per mascherare la debolezza dei dialoghi. Se Gibson avesse avuto la metà degli scrupoli documentari che pretende di avere, si sarebbe almeno dato pena di far parlare i latini con la pronuncia del tempo, e non come dei poveri liceali italiani. Bastava un consulente serio – bastava un giro su Internet. Noi naturalmente non conosciamo la vera pronuncia dei Romani, ma abbiamo abbastanza elementi per sapere che non parlavano come gli attori di Passion. Pilato non poteva dire “Ecce homo”: al massimo “Ekke homo”. I legionari non potevano salutarlo al grido “Ave, Rex”: piuttosto “Aue, Rex”. “Flagellare” si pronunciava “Flaghellare"; “Stultitia” proprio com’è scritto, non “Stultizia”. E così via. Il latino degli attori di Passion è una lingua inventata, per niente realistica. Ma se non sei un addetto ai lavori, non puoi fare altro che cascarci. Passion è esattamente questo: un tranello teso a chi non maneggia bene la materia.

E i cattolici, la maneggiano bene? Sono in grado di capire quando Gibson è fedele ai Vangeli e quando ci aggiunge del suo? Ahimè, questo è il dito sulla piaga. Prendiamo un cattolico a caso, Monsignor Lorenzo Albacete. Via Simone ho trovato il testo di una sua intervista su “The Passion” (rilasciata a un intervistatore di conclamata antipatia, ma questo adesso non c’entra). A un certo punto Albacete fa questo appunto:

Nei Vangeli non ci sono grandi dettagli sul percorso che ha portato Gesù alla crocifissione, c'è scritto che è caduto tre volte, ma nel film cade otto o nove volte;

E uno si chiede: di quali Vangeli parla Monsignor Albacete? Perché in quelli che ho qui in casa non risulta. Le tre cadute sono un’aggiunta della tradizione, le Scritture non vi accennano (così come non dicono mai, per esempio, che i Re Magi siano tre). Insomma, alla fine Mel Gibson pare essersi studiato il Vangelo meglio di Monsignor Lorenzo Albacete, noto teologo. E il cattolico “medio”, che il Vangelo lo ascolta a spizzichi una volta alla settimana, quando va bene? Entra in sala ed è convinto di trovarsi davanti alla Passione “as it was”. E invece si trova più spesso davanti al mondo immaginario di Mel Gibson – un mondo non privo d’interesse, popolato di mostri antropomorfi e aguzzini sadici – ma che sta al Vangelo più o meno come Lethal Weapon sta a Serpico. Era molto più onesto Jesus Christ Superstar. Almeno lì sapevi di non poterti fidare degli sceneggiatori. Ma il “realismo” di Gibson è un’arma subdola. “Fidatevi”, sembra dire, “le cose sono andate così…” Uno si fida. Come fai a non fidarti? È talmente serio che ha i sottotitoli…

Che idea, per esempio, portare il diavolo nell’Orto degli Ulivi. In realtà Satana, in quanto personaggio, è quasi del tutto assente dai Vangeli. Solo una volta si racconta di un colloquio tra lui e Gesù, durante un digiuno di 40 giorni nel deserto. Il diavolo non è mai descritto fisicamente. Per Gibson è una donna calva, che si compiace ad abbellire la Passione con siparietti da film horror di serie B. Perché? Il Satana gibsoniano sembra raffigurare la disperazione, che tenta continuamente Gesù cercando di convincerlo a rinunciare al martirio. (Non a caso il regista racconta di avere avuto l’idea del film “mentre pensava al suicidio”). Nell’Orto degli Ulivi il diavolo solleva appena un po’ la gonna e fa uscire un serpente a sonagli: sembra suggerire a Gesù un modo spiccio per farla finita ed evitare la Croce. Gesù ci pensa un po’ su, poi schiaccia il serpente di tacco. Scena efficace: ma totalmente inventata. Tra noi si era sempre pensato che l’esitazione di Gesù di fronte al martirio fosse un tratto di umanità. No, per Gibson ogni tentennamento proviene dal demonio. (Lo stesso vale per il delirium tremens di Giuda: la sua disperazione non ha nulla di razionale, è un incubo popolato da mostri).

Altra macroscopica invenzione gibsoniana è l’incredibile resistenza di Lethal Jesus. “Vir robustissimus”, come dicono più volte i legionari. Ma anche una persona robusta, sotto tutte quelle legnate, non arriverebbe al secondo tempo. Perché tanto sadismo? Riguardo alle torture, i Vangeli sono estremamente spicci. Qui sembra che l’immaginazione di Gibson si faccia prendere un po’ la mano, come gli aguzzini romani che, una volta presa in mano la frusta, non riescono più a fermarsi. Tutto questo va sotto la voce di realismo. Ma lo è davvero? È realistico un Gesù che riceve più di sessanta frustate e poi si porta la croce fino al Golgota? È realistico un terremoto che squarcia il tempio in due (quando tutte le versioni ragionevoli del testo parlano solo di “velo del tempio” squarciato a metà?)

Più in generale: cosa c’è di “realistico” in Passion? È “realistica” la moviola stile Matrix nelle scene d’azione (che ha un po' rotto, tra parentesi)? È “realistica” la roboante colonna sonora, che ci tiene sulle spine casomai ci distraessimo con le luci di emergenza? È “realistica” una scena notturna con una Luna da centomila watt? (E si sentono già critici parlare di “luce caravaggesca”…) Passion in realtà non è più “realistico” di qualsiasi film in costume holliwoodiano con effetti digitali. La perversione sta nel volersi presentare come qualcosa di più: un’esperienza religiosa, da consumarsi nelle sale più vicine.

Prima o poi dovremo liberarci anche da questa idea. Che vedere il sangue sullo schermo basti a farci sentire partecipi di un dolore. Che una lacrima sul grande o piccolo schermo sia sufficiente a farci piangere. È una cosa che amiamo raccontarci: in realtà non piangiamo e non soffriamo, stiamo seduti in poltrona e ci saziamo d’immagini. Gli aguzzini di Gibson infieriscono sul corpo di Cristo nel tentativo di far passare un po’ di dolore dall’altra parte dello schermo. Hanno un bel da frustare e frustare, non funziona più. A chi in questi giorni volesse sentirsi un po’ in comunione con Gesù martire consiglio di riempire uno zaino (non eccessivamente) e farsi una salita di montagna. Dopo qualche chilometro avrà capito più cose della passione di Cristo che uno spettatore di Lethal Weapon 5. Spendendo anche meno.

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