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lunedì 19 aprile 2004

Ma non c’è dubbio che Quattrocchi sia morto da italiano.
Anch’io – tre giorni che ci penso – anch’io, cosa farò in quel momento? Guarderò in faccia qualcuno o mi rincantuccerò in posizione fetale? Penserò a cosa lascio o a cosa vado incontro? Non lo so. Ma se c’è una videocamera nei dintorni, probabilmente farò la stessa cosa: sprecherò gli ultimi istanti della mia vita a cercare una frase a effetto. Perché sono italiano, e anche Quattrocchi lo era. Ma cosa sono gli italiani? Questo è il problema.

Storia di (un’idea di) italiano

Gli italiani non esistono in natura. Fanno parte – insieme alla plastica, la bomba atomica, Internet e tante altre cose – delle grandi invenzioni del XX secolo. Ma il problema era sentito già dal secolo precedente: fatta l’Italia, occorreva fare, appunto, gli italiani. Le differenze culturali, economiche, linguistiche, etniche, rendevano l’impresa disperata.
Un primo prototipo di “italiano” di massa fu realizzato in circostanze eccezionali: il più grande massacro dell’umanità, la Prima Guerra Mondiale. Milioni di siciliani, napoletani, lombardi, ecc., furono catapultati in Friuli per combattere una guerra di civiltà, fortemente voluta da un drappello di politici e intellettuali spregiudicati. Nelle trincee dovettero per forza imparare una lingua comune. Così nacque un italiano popolare: l’italiano di trincea e di caserma, ahinoi.
Finita la mattanza di civiltà, si provò anche a usare questi italiani di caserma come un soggetto politico, soprattutto quando c’erano da bastonare altri soggetti politici che occupavano le fabbriche e volevano dividere le terre. Sulle prime fu un successo, ma dopo un ventennio fu a tutti chiaro che quel tipo d’italiano non poteva funzionare. Per parlare, parlava, sì, fin troppo. Ma nato com’era in una trincea, tendeva a ficcarsi in tutte quelle che trovava, inventandosi nemici e umiliandoli con tracotanza: plutocrati! Bolscevichi! Giudei! Abissini! A tanta violenza verbale non corrispondeva, purtroppo, la necessaria forza muscolare, e questo fu il motivo per cui l’Italiano 1.0, l’Italiano in camicia nera, fu appeso a un lampione e presto dimenticato.

L’Italiano 2.0 nacque su nuove basi. Per prima cosa, fu redatto un documento di portata rivoluzionaria che affermava che l’Italia era fondata sul Lavoro. Non sulla ricerca della felicità. Non sulla Libertà, l’Eguaglianza, la Fraternità. Tutte belle parole. Ma di parole, per l'appunto, eravamo sazi: a lavorare!
In cambio del Lavoro, l’Italiano aveva diritto ad alcune cose – magari non molte, ma concrete. Non un Impero, non un posto al sole, non l’Uguaglianza, non la Felicità. L’Italiano aveva diritto a un’utilitaria, un mutuo sulla casa e due settimane di ferie in agosto. Ma soprattutto, l’Italiano aveva diritto alla TV. E fu il diritto/dovere alla TV – minimo comun denominatore d’italianità – a dar forma effettiva all’Italiano 2.0. A insegnare una lingua comune, molto meglio di quanto avesse fatto la Grande Guerra (e con meno vittime). Ma non solo una lingua: un immaginario collettivo. Sogni. Sorrisi. Canzoni. Fiction. Chi nei mesi scorsi avesse usato un treno italiano avrà familiarizzato col seguente cartellone pubblicitario:

Orgoglio

La fiction che appassionerà gli italiani
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Non “milioni” di italiani: “gli italiani”. Ecco la risposta all’eterno quesito: chi sono gli italiani? Dicesi “italiano” il popolo che ha la caratteristica di appassionarsi a una fiction. Col corollario inquietante: se non ti appassioni a una fiction (ma anche a un reality) non sei un italiano… (un italiano vero).
D’accordo, è solo pubblicità. Ma vi immaginate lo stesso cartello in Francia? “La série qui va passionner les Français”? Suona falso, vero? “The serial that will arouse the English people”… nessun inglese autentico pronuncerebbe una frase così. “Die Deutschen bewegen sich”… per carità. Tutti questi popoli hanno avuto la tv. Ma nessun inglese, francese, o tedesco, ha mai usato la tv per definire la sua identità nazionale. Oggi in quei Paesi la tv può essere uno strumento del potere. Ma soltanto in Italia la Tv è al potere. Questa è la nostra lieve anomalia.

Questo è anche il motivo per cui un italiano – e solo un italiano – può diventare un eroe per il semplice motivo di aver detto una frase nella prossimità di una videocamera. “Vi faccio vedere come muore un italiano”. Qualcuno dei suoi carnefici conosceva l’italiano, aveva una minima idea di quello che il prigioniero stava dicendo? Difficile. Quattrocchi non parlava a loro, ma ai telespettatori da casa. Come giustamente fa notare Francesco Avvoltoio, pardon, Merlo, dalla prima di Repubblica di ieri:

Ma abbiamo diritto a vedere come muore un italiano, abbiamo il dovere di guardare quel che Quattrocchi, ben cosciente di essere ripreso da una telecamera, voleva che guardassero tutti, e non solo gli occidentali, non solo gli italiani, i suoi amici, la sua famiglia e la dolce Alice. Dobbiamo onorare l’ultima emozione profonda che Quattrocchi ha dovuto e saputo provare, quella di essere visto, occhi negli occhi, da milioni di occhi. È quello che spaventa Al Jazeera…

Vedere ed essere visto da milioni di occhi. Per Merlo non c’è italianità più grande. Reggere nell’ora estrema lo sguardo della videocamera. Offrirsi al voyeurismo nazionale. Abbiamo il diritto di vedere. Abbiamo il dovere di guardare. E insomma, ce lo fate vedere o no? (Merlo insiste sul concetto per sei colonne) I corsivisti hanno fame!

Quattrocchi era un uomo – ed è come uomo che la sua morte mi offende – ed era anche: un siciliano, un genovese, un ex buttafuori, un operatore di security, un fidanzato che aveva bisogno di soldi, un trentenne che forse avrebbe dovuto aspettare maggiori garanzie prima di recarsi in un teatro di guerra in cerca di guadagni. E tante altre cose che non so, e che non sono affari miei. Ma di fronte a una videocamera, Quattrocchi era soprattutto un italiano, ed è agli italiani che ha voluto parlare. Eroico, hanno detto. A me sembra molto teatrale, ma “teatrale” non rende l’idea. Questo tipo di teatralità è tutta televisiva. L’idea, cara ai Reality Show, di mostrare un sé stesso che cerca di essere “sé stesso” in una situazione difficile – nella più difficile delle situazioni. L’italiano non esiste in natura: deve continuamente inventarsi, davanti alle telecamere: mostrare come ride, come piange, come si arrabbia, come si eccita, e adesso anche come muore. Per Merlo è stata una grande vittoria mediatica, una mossa “spiazzante e finale”: io ho i miei dubbi che i brutali assassini di Quattrocchi siano stati in qualche modo spiazzati dalle sue parole incomprensibili.
Così come dubito che possano interpretare le lacrime dei parenti degli ostaggi come un segno di umanità. Probabilmente per loro le lacrime sul video sono un segno di paura, debolezza, sconfitta. È troppo italiana questa coazione a lacrimare davanti alle telecamere (per cui la madre che non lacrima copiosa sulla salma del figliolo diventa subito la prima indiziata dai telecronisti della sera) perché non dico un sunnita, ma anche solo un tedesco o un inglese possa veramente capirla.

Bene: ammesso e concesso che noi italiani siamo così, che viviamo e moriamo e piangiamo così: c’è un motivo, uno solo, per cui dovremmo esserne fieri?

Adesso dunque, per non tradire Quattrocchi, il nostro governo deve chiedere che con il corpo ci venga consegnato quel video dove c’è tutto l’onore dell’Italia e che vale, ontologicamente parlando, più del lancio della stampella di Enrico Toti, più del tiremm innanz di Amatore Sciesa. Il governo infine imponga alla Rai, fosse pure Porta a Porta di mandare in onda […] l’assassinio di Fabrizio Quattrocchi.

Perdonate lo snobismo, la superiorità morale o antropologica che sia, se vi dico che quella trasmissione non la guarderei. Se vi dico che l’idea di condividere anche un solo aggettivo, “italiano”, con un corsivista affamato di immagini, parole e carne umana come Francesco Merlo, stasera mi deprime un po’.

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