Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

domenica 28 febbraio 2010

Sesso Droga e Mussolini

Luddisti di tutta Italia, unitevi!
(Non avete da perdere che i vostri internets).
(Il Partito Luddista Italiano, sull'Unità.it).
(ftg. Ned Ludd, Benito Mussolini, Barbara Palombelli, gli mp3 dopanti, i bulli di Torino, i decreti Romani-Alfano-Pisanu, e tante altre cose che vi risolleveranno il lunedì).
(Provate a commentare di là, talvolta funziona).

C'era una volta Ned Ludd. Un oscuro tessitore delle Midlands, che verso la fine del '700 distrusse il suo telaio meccanico. Nel suo improvviso accesso d'ira molti vollero vedere una presa di coscienza: le macchine avevano reso la nostra vita miserabile. Il cielo si era tinto del grigio delle ciminiere; la giornata non cominciava più al canto del gallo, ma sulla nota sgraziata della sirena che chiamava gli operai a interminabili turni sempre uguali, per una paga da fame. Nessuna sorpresa che negli anni successivi l'esempio del leggendario “Capitano Ludd” ispirasse centinaia di seguaci in tutta l'Inghilterra industriale. Li chiamarono luddisti, e ne impiccarono un bel po'. Ma il loro esempio vive. Ovunque la tecnologia minacci il nostro benessere, il fantasma di Re Ludd chiama ancora a raccolta i suoi seguaci.

Anche in Italia, dove il luddismo non è mai stato così forte come negli ultimi anni. È una corrente trasversale ai partiti, a cui aderiscono giornalisti, magistrati, politici. Chiamarli luddisti può apparire improprio: non li vedrete mai intenti a distruggere un'automobile, un televisore o un telefono... Tutti questi strumenti sono ormai parte della nostra natura, neanche loro saprebbero farne a meno. Tuttavia c'è una tecnologia che oggi più che mai ci minaccia: Internet. I luddisti italiani lo hanno capito: la rete non tinge di grigio il cielo: ma intorbida le nostre coscienze con prostituzione, droga, fascismo, video scioccanti e opinioni anonime. Esagero? Giudicate voi

Qualche mese fa la procura di Trieste ha ottenuto l'oscuramento della sezione incontri di un popolare sito italiano di annunci gratuiti (Bakeca), adoperato da molte prostitute per pubblicizzare i loro servizi. Il che è evidentemente illegale (non prostituirsi, ma farsi pubblicità gratuitamente su internet. Dopo chi li compra più gli spazi sui giornali nella sezione “Massaggi” o “Incontri”?)

Qualche settimana fa gli utenti dell'I-Phone scoprirono sgomenti che l'applicazione più scaricata in Italia era quella che consentiva di ascoltare o assistere ai discorsi di Benito Mussolini. Il che è evidentemente intollerabile. Non i discorsi di Mussolini: il fatto che si possano scaricare da Internet. Se Mussolini diventa accessibile on line, chi comprerà più le dispense appollaiate in cima al chiosco di giornali, con allegato il vhs o il dvd? Alla fine la Apple ha recepito il messaggio e ha rimosso l'applicazione. Se vuoi ascoltare Mussolini, almeno alza il sedere e va' in edicola.

C'è poi la piaga della droga. Certo, può darsi che qualcuno si drogasse anche prima di Internet, ma era molto meno semplice. Nell'ultima puntata di Annozero Barbara Palombelli ha rivelato agli spettatori sgomenti che bastano pochi clic per rifornirsi di pasticche dall'Olanda. L'idea che la rete stia semplificando la vita ai tossici è allarmante – perfino gli spacciatori ai giardinetti dovrebbero cominciare a preoccuparsi. Tanto più che basta aver guardato Porta a Porta di recente per sapere che addirittura c'è un modo di drogarsi da casa, scaricando dei file e ascoltandoli in cuffia; l'avevamo sentito dire qualche anno fa e pensavamo fosse una bufala, ma se persino Vespa l'ha ritirata fuori qualcosa di vero ci dev'essere; ed è qualcosa di potenzialmente devastante per chiunque si guadagni da vivere spacciando ancora droga alla vecchia maniera. Non resta che iscriversi al partito luddista italiano.

Vogliamo parlare dei video amatoriali, pieni di cose brutte che non si dovrebbero mostrare? Negli ultimi giorni un giudice italiano ha attirato l'attenzione di tutto il mondo, condannando a sei mesi di reclusione i gestori di YouTube che lasciarono per qualche giorno on line un video-choc in cui alcuni studenti maltrattavano un loro compagno disabile. Il che è davvero intollerabile – non molestare i disabili: quello succedeva anche prima (anzi, quel video ha permesso l'identificazione dei colpevoli, che sono stati puniti). Nemmeno mostrare i loro maltrattamenti: un video del genere si può ancora tranquillamente diffondere, via cellulare (chiedete ai vostri figli). No, quello che è semplicemente inammissibile è che un video del genere resti qualche ora su YouTube, dove può creare un caso nazionale: i disabili vanno maltrattati con discrezione.

Ho una teoria
: anche il luddismo non è più quello di una volta. I neoluddisti italiani sanno benissimo che non è stata internet a portarci la prostituzione, la droga e il bullismo. Quello che non sopportano è il fatto che grazie a internet ci si possa prostituire, drogare o bullare gratis (e che persino i discorsi di Mussolini circolino a un prezzo irrisorio). Non resta che organizzarsi, lobbizzarsi, ispirare sentenze e disegni di legge. Così, mentre i finanziamenti statali per la banda larga vengono bloccati, in Parlamento si discute un testo di legge che equipara le piattaforme internet alle emittenti tv, impedendo di pubblicare video senza un'autorizzazione preventiva. Il decreto Alfano minaccia di fatto la libera circolazione delle opinioni su internet, imponendo a tutti i siti (blog amatoriali inclusi) l'obbligo alla rettifica. Nel frattempo viene prorogato il decreto Pisanu, che impone norme restrittive a tutti i gestori di reti wireless (siamo probabilmente gli unici in Europa a dover presentare i documenti per navigare in un luogo pubblico).

Il risultato è sotto i nostri occhi. L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per numero di accessi pubblici WiFi. La nostra connessione internet – domestica o mobile – è più cara di quella dei nostri colleghi europei; in compenso è più lenta. Stiamo accumulando un ritardo che peserà sulle nostre imprese anche quando la crisi sarà finita. I nostri blog sono più cauti: troppa franchezza nell'esprimere le proprie opinioni può metterci nei guai. Ma in compenso l'edicolante continuerà a fare qualche soldo con le dispense di Mussolini e Hitler. I giornali potranno sempre contare sulle inserzioni delle massaggiatrici. E i video diseducativi li potremo sempre guardare in televisione. Indovinate sui canali di chi.

giovedì 25 febbraio 2010

Addio agli antichi

Avrete forse sentito dire che scomparirà la geografia dalle scuole – beh, anche quello è un mezzo bluff. Rassicuratevi, la geo non scomparirà, nella maggior parte dei licei; per il semplice motivo che non vi è comparsa mai. Non solo, ma in un certo senso non abbiamo mai fatto tanta geo come negli ultimi anni. Io però preferirei parlarvi della Storia, l'unica materia che scrivo con la S maiuscola (“storia” con la minuscola può essere sinonimo di menzogna, o di fiction, o semplicemente di fatti tuoi).

La caduta dell'Impero Romano (2010 dC)

In questi giorni le sale insegnanti sono infestate dai rappresentanti delle case editrici. Io cerco quanto possibile di evitarli; sono pessimo nell'arte di giudicare un libro dalla copertina, e poi preferisco sempre un vecchio catorcio che conosco bene al modello fiammante di cui scoprirò le magagne tra sei mesi – in ogni caso ho dato un'occhiata ai corsi di Storia. Ormai si sono tutti allineati alla direttiva di non-so-più-quale riforma (Berlinguer?) che fa partire la terza media dal Novecento. Questa, mi rendo conto, è una delle principali differenze tra la scuola nostra e quella dei ragazzi di adesso. Noi non solo non abbiamo fatto in tempo a studiare la caduta del Muro di Berlino, per intuibili motivi; ma il più delle volte nemmeno la sua erezione. I prof col pallino (di solito ideologico) per il '900 arrivavano sì e no alla guerra antifascista, ma era normalissimo anche fermarsi agli anni Trenta o persino alla Grande Guerra. Era Storia, del resto, mica cronaca.

Ecco, questa prospettiva oggi suona quasi eretica. Sarà che nel frattempo il '900 è finito, e quindi è più facile considerarlo Storia con la maiuscola. Sarà che sulla maiuscolità del '900 si insiste di più, c'è la Giornata della Memoria della Shoah e il quella del Ricordo delle Foibe e tutto il resto. Fatto sta che oggi l'idea di uscire dalle scuole senza aver studiato ben bene almeno la prima metà del '900 ha l'aria di un crimine contro l'umanità. Qual è l'insegnante mostro che lascerebbe andare i suoi studenti senza aver loro spiegato cosa sono i nazisti? Se Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, privarti della lezione sull'incendio al Reichstag è rubarti il futuro: inammissibile. Vi si sfaccia la casa. La malattia vi impedisca. Eccetera.

Naturalmente, per poter arrivare così a fondo nel '900, bisogna togliere qualcosa da qualche altra parte – il programma di Storia è la classica coperta troppo corta. Si è deciso perciò di coprire il capo novecentesco scoprendo i piedi: via la Storia antica, fino alla caduta dell'Impero e oltre. I riformatori berlingueriani che praticarono questo taglio avevano probabilmente in mente quella chiacchiera da bar (anche da bar degli insegnanti) per cui non aveva senso ripetere sempre la stessa Storia in tre scuole diverse. È un ritornello che sento da quando ero bambino: perché bisogna ogni volta partire da capo? Alle elementari la preistoria, poi l'Egitto, i Greci, i Romani... ricominci alle medie ed ecco di nuovo la preistoria, l'Egitto... arrivi alle superiori e tac! Di nuovo preistoria, Egitto... che solfa. Quelli che si inventarono questo sistema dovevano essere proprio dei noiosi barbogi. Perché non razionalizziamo, non sfoltiamo, non facciamo economia? Per esempio, potremmo confinare la Storia antica alle elementari. Alle medie poi si ripartirebbe dal medioevo, ed ecco che si libera un sacco di spazio per arrivare all'esame con la caduta del Muro di Berlino (e l'11/9, in ogni libro di terza media che si rispetti non può mancare una fotina delle Twin Towers: bisogna tenersi aggiornati).

Con questo sistema, che è andato a rodaggio negli ultimi 3-4 anni (e in qualche scuola non si è ancora imposto, perché i prof, specie quelli navigati, conoscono l'arte di aggirare le direttive ministeriali più o meno dai tempi di Giovanni Gentile) abbiamo un enorme ciclo di sei anni che parte in terza elementare e finisce in terza media. Cosa ci abbiamo guadagnato? A tredici anni i ragazzini sanno cos'è il Muro di Berlino e chi sono i nazisti. Cosa ci abbiamo perso? Spero di sbagliarmi, ma credo di avere assistito alla caduta dell'Impero Romano. No, non quello d'Occidente (476dC). Neanche quello d'Oriente (mille anni più tardi, l'impero più sottovalutato della S). Sto parlando dell'Impero nella fantasia dei ragazzini. Al punto che mi sono ridotto a rivalutare un peplum osceno come il Gladiatore: trama insensata, ma almeno ci sono le bighe e le carrozze, i Barbari e i mirmidoni. Tutte cose i ragazzi si bevono come astronavi, anzi, con gli occhi ancora più sgranati, perché un po' di astronavi nei film le hanno già viste, ma una biga romana, quando mai? L'Impero Romano è kaputt (per tacere delle polis Greche, o delle piramidi – ma per quelle ci pensa Voyager, no? Grazie, servizio pubblico). Insomma, questi arrivano alle superiori e non hanno la minima idea di chi sia Giulio Cesare, Orazio Flacco, Nerone, com'è possibile? Non glielo hanno spiegato a... otto anni?

Ecco qui il problema. No. La maestra di terza elementare probabilmente non ha spiegato chi fosse Giulio o Tizio o Caio. Neanche doveva. Non avrebbe avuto senso. A otto anni non studi le vite dei Romani illustri, i processi sociali o economici; a 8 anni se va bene fai un cartellone in cui si disegnano gli uomini con le toghe e i sandali, le domus, i gladi, le arene: ed è già grasso che cola. Questo i barbogi gentiliani lo sapevano. Non è che ci volesse molto: prima di crescere lunghe barbe bianche avevano tutti avuto esperienza diretta come giovani maestrini nelle scuole del Regno, e lo sapevano. Sapevano pure che imparare consiste, per lo più, nel ripetere, ripetere, ripetere, fino allo sfinimento: ogni volta integrando un 2% di contenuti in più. Per cui non ci vedevano nulla di male a rifare i Romani a otto, undici e 14 anni: la prima volta mostri un uomo in toga, insegni la filastrocca dei sette Re; la seconda sviluppi la differenza tra Regno e Repubblica, spieghi chi è Cesare e perché l'han pugnalato (si raccomanda l'insistenza sul sangue, i ragazzini van matti). La terza puoi già tirare fuori le classi sociali, la lotta tra patrizi e plebei e poi tra questi e gli equites; però difficilmente riuscirai a fare bene il terzo passo se ti è mancato il primo. O il secondo. E così l'Impero è caduto, come è poi destino di ogni Impero.

E uno potrebbe anche far spallucce. Non è stata una perdita secca: ci abbiamo guadagnato... il muro di Berlino, i Lager e i Gulag (si raccomanda d'insistere sul fatto che ci sono stati anche i Gulag). Non è che un ragazzo cresce più cretino se invece di introiettare la storia di Giulio Cesare si nutre di Lager e Gulag. Tanto più che l'incubo su cui siamo sospesi non è quello di venire pugnalati dai senatori alle calende di marzo, ma di ritrovarci di nuovo in un lager / in un gulag. Quindi cosa sto difendendo, esattamente? Cos'è Giulio Cesare per me, cosa ci trovo di così essenziale? Non è ora che diventi una curiosità antica, un signore che viene studiato soltanto da specialisti adulti? Non è ora che lasci il suo posto nella cultura generale a nozioni più attuali?

Probabilmente sì, sto difendendo la mia infanzia, perché ovviamente è stata La Più Bella Del Mondo. E la Storia era la mia materia preferita. I Romani soprattutto. Non vedevo l'ora di arrivare in terza elementare per snocciolare Romolo-Numapompilio-Tullostilio, e quando finalmente ci fui e mi fecero fare il cartellone con le toghe e le altre palle (pallae) ci rimasi male: le maestre ci prendono per deficienti? Io voglio ragguagli sulla battaglia di Zama. Tutto questo sapete perché? Mi piacevano i fumetti. E tra quelli che avevo in casa, il più bello di tutti si chiamava Asterix e Cleopatra. Aveva colori fantastici, scene faraoniche sul serio, e tutto l'insieme tradiva un'ironia e una sapienza narrativa che non si poteva confrontare col Topolino settimanale.

Si capisce che per me bambino che imparava a leggere nelle nuvolette Asterix non fosse che un omino buffo col nasone; e tuttavia in un qualche modo dovevo imparare chi fosse il suo antagonista, Giulio Cesare; e perché il loro mondo fosse così diverso dal mio. A furia di chiedere e cercare scoprii che erano effettivamente esistiti gli antichi Galli, gli Egizi, e i Romani; che per quanto fossero i cattivi, questi ultimi avevano pure mandato avanti un impero millenario; e così via; e nel giro di pochi anni era cresciuto un piccolo appassionato di Storia. Ma perché proprio di Storia e non di chimica, o fisica o biologia? Perché la Storia è la materia più vicina alle storie con la s minuscola, che erano poi quelle che interessavano a me. Ed è ancora così. La Storia è un serbatoio inesauribile per la fiction. Persino quando fa finta di guardare in avanti: l'80% della fantascienza è rielaborazione del passato. Avrei mille esempi per specialisti, ma in fondo basta Avatar, no? Siccome Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, per immaginare come ci comporteremo quando conosceremo gli extraterrestri non abbiamo che da consultare i vecchi libri, ad es. Pocahontas.

“Va bene, d'accordo, sei diventato un appassionato di Storia perché ti piacevano le storie: ma ammesso che il tuo percorso sia in un qualche modo rappresentativo o consigliabile alle nuove generazioni, comunque, che problema c'è? Se i ragazzini devono crescere facendosi delle storie, se ne faranno meno sui proconsoli togati e più sul Terzo Reich. Non c'è niente di male in questo, anzi magari è meglio, visto che il Terzo Reich è comunque un problema più attuale. O no?”

Ecco, siamo arrivati al punto. Però siamo anche in fondo a due cartelle, per cui per stavolta la smetto qui (ultimamente mi vengono pezzi lunghissimi, perdonatemi. Questi poi sono appunti per una conferenza).

lunedì 22 febbraio 2010

Ho una teoria #11

"Hai letto? Dicono che sull'Unità sei moscio".
"Moscio? A me sembra di essere un po' rigido".
"Insomma, non sei a tuo agio".
"Ci sto lavorando. Vedrai che lunedì li stendo. Sto lavorando a un pezzo che... ti leggo l'incipit?"
"Se insisti".
"Accadde qualche anno fa: stavamo scegliendo l'aspirapolvere. Bello eh?"
"Senz'altro ti crea una certa suspense".
"Vero? Vuoi sapere come va a finire?"
"No, no, non ti preoccupare, me lo leggo poi con calma".
"Stavolta li stendo, me lo sento".
"Stavolta li stendi proprio".

(C'è qualcuno su internet che parla male di te!, sull'Unità online. UPDATE: C'era un bug che non permetteva la pubblicazione di commenti. Adesso funziona, quindi se vi va, commentate di là).

(La vignetta è ovviamente rubata a XKCD).

Accadde qualche anno fa: stavamo scegliendo l'aspirapolvere. C'era una marca che conoscevamo sin da bambini: tutti ce ne avevano sempre parlato come il non plus ultra; sapevamo che costava un po' di più ma che probabilmente ne sarebbe valsa la pena. Insomma, ormai ci eravamo decisi.

Poi però siamo andati su Internet. Abbiamo visitato un sito di recensioni, non ricordo quale – ce n'è più d'uno, e non danno alcuna garanzia d'affidabilità. Ci scrive gente normale, che decide di pubblicare on line il proprio punto di vista su un aspirapolvere, o una lavatrice, o un automobile, facendo spesso scempio di sintassi e ortografia. Però sono persone vere, che nessuno paga per parlare bene di un prodotto; se condividono il loro parere è per il solo gusto di farlo. Bene, queste persone normali distrussero la fama del prestigioso elettrodomestico nel giro di cinque minuti. Leggemmo che era un affare ingombrante e inutilmente costoso, che l'assistenza era un calvario, ecc. Così non lo comprammo. Magari ci siamo sbagliati, le recensioni on line non sono più attendibili dei pareri di amici e conoscenti. Ma riflettono le opinioni di un insieme più vasto di persone. In fondo non abbiamo fatto altro che sostituire a un sentito dire (“l'aspirapolvere X è buono perché me l'ha detto un cugino, o un collega, o un vicino di casa”) un altro sentito dire (“X è scarso perché ne parlano male 9 recensioni su 10”), che ci sembrava più affidabile perché più condiviso.

Ah, dimenticavo: le recensioni erano tutte rigorosamente anonime. Non è difficile capire il perché. Tutti abbiamo il diritto di parlare bene o male di un prodotto, ma scrivere dello stesso prodotto comporta un rischio che in Italia non sono disposti a correre nemmeno i quotidiani. Anche le testate più critiche nei confronti dei politici più potenti si guardano bene dall'attaccare esplicitamente aziende che possono ritirare la pubblicità o mettere in mezzo gli avvocati. Capita così che sulla carta stampata sia più facile criticare il Presidente del Consiglio che parlare male di un aspirapolvere. Certo, Internet ha un poco cambiato le cose. Ha dato a tutti uno spazio per esprimerci; e, cosa non meno importante, ci ha dato la possibilità di farlo in modo anonimo. Ha regalato a tutti una maschera, un avatar, un profilo vuoto da riempire. Per un po' è stato fantastico.

Ma probabilmente era illegale. Questa maschera, come molti giornalisti esperti non cessano di farci notare, internet l'ha regalata anche a mitomani e diffamatori. A nessuno piace trovare su una pagina web falsità o cattiverie sul proprio conto: tanto più a chi gestisce un'azienda, e che spesso non sa ancora come reagire ad attacchi che in Italia fino a poco fa erano una novità. Per esempio: una settimana fa la blogger Sybelle ha avuto un'esperienza che chiunque scriva su un blog considera tra i suoi incubi peggiori: perdere l'accesso al suo sito personale. Cos'era successo? Qualche mese prima un anonimo aveva lasciato un commento lesivo della reputazione di un marchio d'abbigliamento. L'azienda titolare del marchio, invece di chiederne la rimozione a Sybelle, coinvolge Wordpress, il servizio di hosting (in pratica i proprietari dello spazio web concesso a Sybelle). Così, per impedire la lettura di un commento anonimo, Wordpress oscura l'intero blog. Apparentemente le norme d'utilizzo glielo consentono.

A questo punto entra un gioco un fattore che l'azienda e il servizio di hosting non avevano calcolato: la solidarietà di decine di utenti che si sono immediatamente messi nei panni di Sybelle. Il caso è approdato su blog e social network, creando un fiume di interventi che ha preso diverse direzioni. Da una parte la polemica con Wordpress (che dopo qualche giorno ha rimesso on line il blog, eliminando soltanto il pezzo in cui era apparso il commento incriminato). Dall'altro, il marchio di abbigliamento. Il famigerato commento, ripescato su google, è statoripubblicato sul popolare blog del giornalista dell'Espresso Alessandro Gilioli. A quel punto i responsabili dell'azienda si sono resi conto di avere amplificato a dismisura la visibilità di un oscuro commento dimenticato da mesi su un blog personale, e hanno addirittura chiesto scusa. Purtroppo per loro la credibilità di un marchio non si ripristina così facilmente come l'accesso a un blog. (Per un resoconto più dettagliato sulla vicenda vedi MyWeb 2.0); per una riflessione più articolata vedi Punto Informatico).

L'anonimato di internet è un problema. Inutile negarlo. Ma sbaglia chi crede di poterlo risolvere in maniera repressiva, con l'abolizione dell'anonimato o altre misure impraticabili. Internet è un universo fluido (la metafora della navigazione è ancora la più azzeccata): invece di piantare paletti e alzare steccati, a volte basta seguire la corrente. Se uno sconosciuto parla male di te, ignorarlo è sempre l'opzione migliore. E bisognerebbe comunque evitare di farsi troppi nemici... in pratica, le regole che abbiamo imparato nel cortile della scuola sono ancora le migliori per farsi rispettare sul web. Almeno, questa è una mia teoria. Non è detto che sarà così per sempre. Forse un giorno le aziende riusciranno a imporre quel rispetto un po' omertoso che già vige nel nostro giornalismo. Perdonatemi se quel giorno non canterò vittoria. Certo, nessun anonimo potrà più permettersi di offendere me e il mio lavoro. Ma probabilmente possiederò un aspirapolvere ingombrante e inutilmente costoso.

venerdì 19 febbraio 2010

L'hai provato il crack?

Essendo Bernabei

Invece di parlare di Morgan – che poi sembra di essere gli stronzi – perché non parliamo di Alessia Marcuzzi?
Una simpatica signora che presenta uno dei programmi di maggior successo televisivo in Italia, e tutto il resto del tempo fa la pubblicità a uno yogurt dalle proprietà lassative.
Che se uno ci pensa, è quel classico prodotto che potrebbe fiaccarti un po’ l’immagine – insomma, se dopo anni non rinuncia, è evidente che la pagano bene. Molto bene. Ecco, secondo voi perché? Può darsi che sia semplicemente un capriccio: i direttori del marketing del noto yogurt hanno deciso che continueranno a rovesciare soldi sulla signora Marcuzzi così, pel puro piacere di farlo. Una sorta di mecenatismo: questa è un’ipotesi. Però io continuo a trovarne più plausibile un’altra, ovvero: la signora Marcuzzi continua fare il testimonial dello yogurt perché funziona. Da quando c’è lei, lo yogurt vende un po’ di più. Con un’altra (meno bella, o meno alta, o meno bionda, che ne so) non avrebbe venduto altrettanto.
Voi ci credete a questa cosa? Secondo me sì. Secondo me la date per scontata, voglio dire, i testimonial esistono più o meno da quando pubblicità si chiamava ancora réclame. I professionisti del settore magari storcono il naso, loro preferirebbero poter contare solo sulle loro forze e sulla loro sempre sconfinata creatività… ma alla fine un buon testimonial è una sicurezza. Anche quando non sfrutta il meccanismo dell’immedesimazione perché, suvvia, nessuno ci crede veramente che la Marcuzzi abbia tutti questi problemi intestinali o addominali. Ella fa parte dell’empireo tv, non soffre delle malattie di noi comuni mortali; eppure noi comuni mortali andiamo a fare la spesa e carichiamo nel carrello lo yogurt lassativo. Perché c’è rimasto in mente lo spot della Marcuzzi – ci credete a questa cosa? Cioè, magari a voi non è successa (nemmeno a me), ma ci credete che molta gente è in grado di comprare un certo caffè perché lo ha visto bere da Clooney o Bonolis? Perché altrimenti nessuno pagherebbe né Clooney né Bonolis. Può sembrarvi sciocco, ma il meccanismo dei testimonial evidentemente funziona. Altrimenti non li userebbero più.

Ecco. Adesso spiegatemi perché lo stesso meccanismo, applicato agli stupefacenti, non dovrebbe funzionare. Insomma, ipotizziamo che un personaggio famoso, un habitué delle prime serate, dica in un intervista che lui fa un uso consapevole di qualche droga pesante, che ci si trova bene, che la considera migliore di molti antidepressivi. Ipotizziamo che questa intervista – magari carpita in malafede – abbia una certa copertura mediatica. Tanto che nei giorni successivi lo stesso personaggio famoso non riesca a scrollarsela di dosso, al punto che appena lo vedi dici toh, il Cattivo Cantante (allo stesso modo in cui quando vedi la Marcuzzi pensi, toh, la madre di tutti i bifidus). Ecco. Si può dire che quel personaggio famoso può aver convinto qualche telespettatore a farsi di crack? No. Non si può dire. Se lo dici sei un moralista (dove per ‘morale’ s’intende qualche orribile parassita che ti porti dentro). Uno che non si fida della maturità del pubblico, che è sempre maturo per definizione: anche quelli che guardano Naruto; se cambiano canale e trovano un video del crackdipendente diventano subito adulti e consapevoli. Nota che questa consapevolezza li protegge soltanto dal consumo di stupefacenti: appena passa lo spot della Marcuzzi, tornano il pubblico bue che si beve qualsiasi panzana a qualsiasi età. Ma l’idea che uno stupefacente possa essere veicolato dalla testimonianza di un personaggio famoso – né più né meno che uno yogurt – eh no, è un’idea da matusa. Da Rai-di-Bernabei. Senonché, anche Sanremo è roba da Bernabei. È chiaro che lì decidono i benpensanti. Insomma, il posto sbagliato per fare i maudit. E spero che si capisca che stasera non ce l’ho né con Sanremo né coi maudit, ma con chi vorrebbe tenere insieme le due cose.

Io mi rendo conto che le persone che scrivono sui blog, o sui social network, appartengono forse al segmento sociale e culturale meno adatto a porsi il problema. Sono individualisti, quindi è difficile coglierli in castagna – con qualche yogurt nel carrello, intendo. Anche se torturati, negheranno categoricamente di aver mai preso o fatto qualcosa per imitare quale si voglia personaggio famoso. Va bene. Cosa vi posso dire – siete fichissimi. Ma accettate di vivere in un mondo pieno di persone meno equipaggiate di voi in fatto di autostima. Accettate il fatto che il circo dei Personaggi Famosi funzioni anche grazie ai prodotti che fanno girare e che li fanno girare. E che pubblicizzare un derivato della cocaina come antidepressivo non è un’azione priva di conseguenze. Certo, è difficile immaginare l’adolescente che sfogliando Max si convince all’istante delle proprietà antidepressive del crack e corra al parchetto più vicino per guarire un improvviso male di vivere. Non è così che funziona. Ma se avete un po’ il polso della situazione, sapete più o meno quante persone si muovano oggi sulla linea di confine tra il consumo e il non consumo: in una situazione di offerta crescente e di perenne sottovalutazione del rischio a volte basta un nulla per portare un adolescente (e non solo un adolescente!) a decidere se provare o no, se continuare o no. Le confessioni di un cantante da prima serata sono un po’ più di nulla.

Voi siete abituati a risolvere i problemi con una battuta. Quindi: se qualcuno è così fesso da fumare crack perché ha letto un’intervista di Morgan, peggio per lui. Ok, buona. Ma provate per un attimo a mettervi nei panni di uno Stato. Sì, lo so che sono panni larghi che vi mettono a disagio. Però provateci. Siete uno Stato. Vedete un aumento delle tossicodipendenze. E' un male? Sì, è un male. Gli esperti vi dicono che è a causa di una sottovalutazione del rischio, non solo tra i più giovani. Ah, dimenticavo: disintossicare tutta questa gente vi costerà parecchio. Cosa fate? Ve ne fregate? Scrivete due battutine fulminanti sul blog della Gazzetta Ufficiale? Non lo so, chiedo. Gliela date, la prima serata, al primo tossico che sostiene di sapersi gestire una dipendenza da crack meglio di un ciclo di antidepressivi? Io forse no, non gliela darei; s’io fossi la Rai, la Rai di Bernabei.

Fine del trip, nessuno è la Rai. La Rai è quel che resta di un organismo che ha smesso di pensare in modo organico decenni fa (e anche quando pensava organico non è che formulasse tutti ‘sti pensieri intelligenti). Restano tra le macerie molti residui di benpensantismo e qualche disperato tentativo di mettere insieme un nuovo senso morale. Ma è dura, perché appena cominci a dire che, mah, forse i morti ammazzati alle nove di sera non danno proprio un buon esempio … o che le puntate fetish dei Griffin non sono il miglior dopopranzo per gli studenti delle elementari… ti danno subito del censore, e il bello è che han ragione. Non bisogna censurare niente mai, non è previsto dalla formula. La formula è: non importa quanti anni hai. Sei consapevole, sei adulto, sei fichissimo, puoi guardare e comprare qualsiasi cosa ti mostriamo. Insomma, il modello è mediaset. Da trent’anni, e finché regge l’economia (forse non regge, uh, allegria).

giovedì 18 febbraio 2010

I prigionieri

Cosa c'è nella scatola

Ricapitolando: esistono miti e mitologie (e poi esistono studiosi che potrebbero giustamente fulminarmi per l’uso non accademico di questi due termini, ma è solo per intendersi in un discorso da blog, ok?) I miti vengono prima: sono racconti autoconclusivi che cercano di spiegare un enigma, non riuscendoci, e quindi restando profondamente pregni di mistero. Rimangono bagliori nell’oscurità, diventano archetipi, si assomigliano un po’ tutti. Le mitologie sono rielaborazioni di età già relativamente più rischiarate, dove non si tratta di spiegare il Mistero del Tuono, ma di mettere in ordine quanti figli e nipoti abbia avuto il signor Giove, da chi dove perché e con quali conseguenze.

Più che discendente del mito, la mitologia è il mito stesso, (mal)cresciuto. Quando il bambino apre lo Hobbit per la prima volta trova un ometto misterioso che vive in una caverna, contattato da un mago e da altre creature strane che gli propongono un viaggio in un mondo sconosciuto. Milleduecento pagine dopo, alla fine del Signore degli Anelli c’è una tabella cronologica con tutti gli avvenimenti degli ultimi cinquemila anni della terra di mezzo, il corso di elfico, eccetera eccetera. Quando chiude il libro il bambino è diventato un ragazzo brufoloso.

Può darsi che dia fastidio la volgarizzazione di tutti i miti in insipide soap (e in effetti l’estrema decadenza della mitologia è una soap di dei ed eroi che si sposano, fanno figli che muoiono in incidenti cruentissimi ma poi magari risorgono, senza che succeda mai nulla di irreparabile o realmente interessante), però esistono alternative? In fondo stiamo parlando di intrattenimento: romanzi, fumetti, serie tv, produzione di massa: la mitologizzazione è un processo obbligatorio quando devi spremere dallo stesso mito centinaia e centinaia di puntate. La serialità lunga non può che uccidere il mito. Almeno fino a Lost. Ah, già, dovevo svelare il mistero di Lost.

Beh, non è un gran mistero: Lost è il primo tentativo riuscito di far sopravvivere il mito in tv. Non le mitologie. Non le genealogie. Non i complessi rapporti tra personaggi e i calcoli sullo spazio-tempo e le realtà alternative. Tutte queste cose in Lost ci sono, ma è stato chiaro quasi subito che erano l’arredo (quando hanno rischiato di prendere il sopravvento, ci siamo spazientiti). Quel che conta in Lost è il mistero. C’è un’isola. Non si sa dove sia. Dopo cinque stagioni, ancora nessuno si è preso la briga di dircelo. In un certo senso è come se la storia non avesse mai fatto passi avanti dalla prima puntata. Riuscire a mandare avanti baracca e burattini senza avere svelato nemmeno il primo mistero ha qualcosa di miracoloso.

I personaggi di Lost, lo intuiamo, non sono del tutto vivi, ma come sospesi in un mondo di ombre. Prova ne è che non si spiegano, né tra loro né con noi. Da anni ci aspettiamo la classica scena in cui il cattivo trionfante, pistola in mano, fa la “spiega generale” di tutto il complotto (prima di essere miracolosamente sconfitto da un buono che arriva all’ultimo momento). Possiamo rassegnarci, un momento così non lo avremo mai. Per contro abbiamo misteri che si trascinano assurdamente, come la Dharma Initiative: possibile che dal 1977 in poi nessuno dei protagonisti abbia avuto un po’ di tempo per chiedere e capire cos’è questa benedetta Dharma, cosa cerca sull’isola, quali sono i suoi fini, eccetera? Ma i personaggi di Lost non sanno chiedere o spiegare il perché, non è tra le loro opzioni. Possono baciarsi, sparare, sperare di tornare a casa, detonare bombe atomiche e poco altro.

Quello che ha tenuto la maggior parte di noi davanti a Lost, anche quando la trama diventava impossibile da ricostruire e i personaggi cominciavano a dividersi in schieramenti incomprensibili, sono state le oscurità di cui la storia è cosparsa, illuminate da improvvisi bagliori che facevano rizzare i capelli. Gli scrittori di Lost non fanno che chiederci, da anni: cosa c’è nella scatola? Promettono di dircelo. Lasciano intendere che non potranno non farlo, che la storia non potrebbe proseguire senza sapere cosa c’è nella scatola. E invece prosegue, con un’altra scatola e un altro mistero. Tutto questo sin dal primo episodio: perché c’è un orso bianco su un’isola tropicale? La botola, che si illumina solo una volta in tutta la prima stagione. Sapevamo che era un indovinello sleale, ma non potevamo fare a meno di chiederci: cosa c’è dentro? Quando ce lo diranno? I numeri della fine del mondo. L’urlo di Jacob nel buio della capanna. La sfinge – che è un classico esempio del modo in cui gli scrittori di Lost ci fanno entrare nel mito: per illuminazioni improvvise, a cui segue il buio. In tutta la serie, la sfinge compare interamente per pochi fotogrammi. Il resto sono frammenti, oscurità, mistero. Non sono più limitazioni imposte da un budget, queste. Sono chiaroscuri consapevoli, ombre manovrate da scrittori che hanno capito come si riportano gli spettatori all’età primigenia del mito: quando i fulmini e i giganti fanno paura, e vorremmo sapere dai grandi il Perché delle cose.

È cominciata l’ultima stagione, e siamo un po’ tesi. A questo punto Lost può solo deluderci. Come possono cinque anni di misteri trovare una soluzione soddisfacente? Ma anche qualora succedesse, è davvero quello che vogliamo? Un’isola finalmente illuminata a giorno, senza più misteri? È probabile che gli autori abbiano optato per una via intermedia: qualche cosa ce la spiegheranno, il più lo lasceranno libero alle interpretazioni. Circoleranno ancora per molti anni mitologie fantasiose su forum all’uopo. E poi, tra trent’anni, a qualcun altro verrà in mente di raccontarci la storia misteriosa di qualcuno perso su un’isola, che per tornare a casa deve capire sé stesso. In fondo i miti si assomigliano un po' tutti.

lunedì 15 febbraio 2010

Gli uomini prima del diluvio

Potete immaginare di vivere cinque anni senza di lui?
(Sì). (In effetti non sapete manco chi sia). (Ecco, appunto).
Altri dettagli in Ho una teoria #10, sull'Unita.it (dove temo che i commenti non funzionino).

"Qualche cosa può essere sfuggita", dice Bertolaso. Potremmo fare il piccolo sforzo di credergli, perché no? Dal 2008 in qui il capo della Protezione Civile è stato sottosegretario all’emergenza rifiuti in Campania; commissario dell’area archeologica romana; e ancora commissario straordinario per il terremoto dell’Abruzzo (con annesso vertice g8), per le eruzioni nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto della Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo e per qualcos'altro che mi sarà senza dubbio sfuggito... In mezzo a tanti impegni un cantiere alla Maddalena potrebbe effettivamente essere passato inosservato: ma anche sforzandoci di credere alla sua buona fede, come possiamo giudicare un sistema che considerava qualsiasi evento importante un’emergenza (i mondiali di ciclismo...) e ogni emergenza degna dell'intervento di un singolo uomo? Non c’era in Italia un’altra persona preparata in grado di gestire almeno un’emergenza su cinque, qualcuno che potesse gestire con più attenzione i cantieri della Maddalena mentre Bertolaso volava in Abruzzo a soccorrere i terremotati?

Ho una teoria: Bertolaso – che non nasce berlusconiano – è rimasto suo malgrado intrappolato nella categoria berlusconiana degli “uomini del fare”. Vere e proprie incarnazioni della Provvidenza, gli Uomini del Fare risolvono i problemi da soli, in poche mosse. Moderno Cesare, l'Uomo del Fare viene, vede, vince, e vola a farsi un massaggio antistress. Stress che si lascia facilmente spiegare: gli Uomini del Fare non lo dicono, ma devono essere circondati da incompetenti a cui non potrebbero cedere nemmeno un decimo delle loro responsabilità, senza correre il rischio che tutto il loro lavoro crolli come un castello di carte. Dopo gli Uomini del Fare c’è sempre il diluvio.

Prendiamo la Lombardia. La più popolosa regione d’Italia, saldamente in mano a una classe dirigente di centrodestra che negli ultimi quindici anni dovrebbe avere espresso e cresciuto numerosi validi amministratori… e invece no, pare che l’unico in grado di mandare avanti la regione, da quindici anni a questa parte, sia Roberto Formigoni. Dopo aver surclassato il record di Franklin Delano Roosvelt (appena dodici anni alla Casa Bianca), il governatore lombardo punta ora a completare il ventennio, un primato senza molti precedenti nelle democrazie moderne (persino in una democrazia sui generis come la Federazione Russa, dopo otto anni di presidenza Putin si è dovuto trovare un altro incarico). Certo, dietro Formigoni c’è un compatto blocco di potere.. Ma sarebbe nell’interesse di qualsiasi blocco di potere rinnovare i propri uomini ogni tanto: giusto per non dare l’impressione che dopo Formigoni ci sia il diluvio. Tanto più che una sua eventuale rielezione rischia di risultare illegale: la legge 165 del 2004 vieta esplicitamente la rielezione dei presidenti delle regioni dopo due mandati consecutivi (quello di Formigoni sarebbe il quarto). Ne ha scritto di recente, sulle colonne dell’Unità, il professore di diritto costituzionale Vittorio Angiolini. L’ineleggibilità di Formigoni, già lungamente dibattuta in rete (tra i primi a parlarne Luca Sofri e Giuseppe Civati nei rispettivi blog) non ha forse ancora avuto sui quotidiani la visibilità che meriterebbe. Gli stessi avversari di Formigoni esitano a sollevare la questione.

Non è difficile capire perché: basta attraversare il Po per trovare un’altra grande regione (l’Emilia-Romagna) governata da un Uomo del Fare (Vasco Errani, PD) che gareggia per il suo terzo mandato. Una sua vittoria (probabile) non sarebbe meno illegale di quella di Formigoni a Milano. Ma il caso di Errani è, se possibile, più preoccupante, perché dimostra che la categoria degli Uomini del Fare sta penetrando anche nelle regioni storicamente di sinistra (per carità non chiamiamole più “rosse”). Ma davvero l’elettore emiliano di sinistra è così incline al culto della personalità? In realtà finora ha dimostrato il contrario, confermando al governo della regione e di tante amministrazioni locali una classe di funzionari piuttosto efficiente, ma che non brilla certo per eccessi di protagonismo; tanto che a parte l’eccezione rilevante del piacentino Bersani, gli amministratori emiliani non hanno mai avuto brillanti carriere a livello nazionale (viceversa sono stati personaggi carismatici alla Cofferati ad avere i loro problemi con la base emiliana). Lo stesso plurigovernatore Errani non è mai stato una celebrità alla Formigoni, e difficilmente lo diventerà anche dopo una terza vittoria. Chi andrà a votarlo, più che l’Uomo, premierà la continuità, la tradizione, forse anche l’appartenenza… tutti valori che potevano essere espressi da qualsiasi altro amministratore emiliano capace, purché il PD lo candidasse. Riproporre invece per la terza volta lo stesso Uomo, per quanto validissimo (ma se è così bravo, possibile che non gli si possa trovare nessun altro incarico all’altezza?) lascia intendere che anche nella sinistra emiliana, dopo Errani, non ci sia che il diluvio. Una prospettiva, per chi ha meno di quarant'anni, abbastanza inquietante.

giovedì 11 febbraio 2010

I portali oscuri

Il mistero di Lost - beh, ma è presto detto. No, non è senz'altro una botola o una sequenza di cifre. Il vero mistero di Lost, ma non si è ancora capito? siamo noi. La nostra resistenza pluriennale di spettatori, vincitrice su ogni logica e verosimiglianza. Abbiamo visto isole che scompaiono, morti che tornano in vita, un fumo che afferra le persone e le uccide sbattendole contro gli alberi, e non abbiamo cambiato canale: se non è un mistero questo. Speravamo che trovassero una via per uscire dall’isola, e quelli hanno trovato un sistema per tornarci. È da un bel pezzo che non sappiamo più chi siano i buoni o i cattivi, probabilmente la cosa nemmeno ci interessa. Cosa ci aspettiamo, ancora? Mistero. Anche se forse io ho capito... (Fffffffroscccccccccc)

Il redesign dei Klingon

Dicevamo che ogni storia nasce come un mito: un personaggio esce dall’oscurità, combina qualcosa e scompare al momento giusto. Tanto basterebbe, se restassimo bambini. Ma cresciamo, sviluppando curiosità morbose e inutili (almeno finché continuiamo a esercitarle sulle fiabe dei bambini). Avrei centinaia di esempi, ma prendiamo Star Trek. La serie storica, intendo. Ogni puntata è un mito. Un’astronave arriva su un pianeta diverso. Ma da dove arriva? non è chiaro, non si sa (da dove viene Zeus? E Cappuccetto Rosso?) Da qualche parte c’è una Federazione, sull’Enterprise in effetti c’è scritto U.S.S. che qualcosa vorrà dire – ma in realtà l’Enteprise proviene dalle tenebre: atterra su un pianeta e fa partire la storia. Quando la storia finisce l’astronave bianca ritorna alle tenebre. I miti (le storie primigenie, autoconclusive), funzionano così.

Trent’anni dopo intorno all’Enterprise non c’è più un solo centimetro di ombra, ma un garbuglio inestricabile di informazioni che farebbe impallidire la ruota di Tiberio. Sappiamo tutto sulla Federazione, sui suoi alleati e sui suoi nemici – l’Universo non è più una frontiera, è un suk di popoli che litigano o fanno affari, e se abbiamo pazienza possiamo guardare le puntate che ci spiegano il perché. Possiamo prendere appunti, perché in vent’anni la storia si è complicata parecchio. Oppure possiamo crescere ulteriormente e mandare a quel paese l’intera franchise (come molti fecero al penultimo episodio). Ma non è colpa degli autori se l’universo misterioso e pieno di promesse della prima serie era diventato una struttura iperdefinita dove tutto era intrecciato in complicati rapporti di causa ed effetto. Siamo noi che lo abbiamo voluto così, crescendo con la Saga. A un certo punto le favole dei bambini non ci sono bastate più, abbiamo voluto sapere chi fossero i romulani e perché, i vulcaniani e perché, perché, perché, maledetti perché puberali. Non potevamo più berci le favolette del capitano Kirk, ma avevamo ancora paura a spegnere la televisione e farci una vita complicata nel mondo vero. Pretendevamo che la vita complicata se la facessero i discendenti del capitano Kirk.

Prendi i Klingon. La prima volta che appaiono, nella serie classica, sono una manciata di alieni brutti, cattivi e di colore. Un cerone bronzeo, vestiti e costumi medievali, barbette e tratti somatici orientali, perché i giapponesi erano ancora il Pericolo Giallo dell’insonscio collettivo americano. Le loro astronavi erano invisibili più per limiti di budget che per altro. È chiaro che la storia, a raccontarla così, non può reggere i limiti dell’infanzia. E quindi lentamente i Klingon si evolvono. Gli sceneggiatori si improvvisano etnologi e cominciano a spiegarci che dietro la loro presunta cattiveria ci sono nobili tradizioni… insomma è vero che mangiano animali vivi, ma vanno capiti, è la loro cultura… tutto un corso di relativismo culturale applicato a un popolo inesistente. Quando crolla il muro di Berlino se ne accorgono anche i Klingon, che diventano alleati della Federazione più o meno quando i polacchi chiedono di entrare nella Nato. Nel frattempo sono diventati un fenomeno di costume, sugli scaffali delle librerie trovi i dizionari klingon, qualcuno traduce Shakespeare in klingon, qualcun altro apre la wikipedia in klingoniano, eccetera. Siamo in piena fase mitologica: al nerd non basta la storia, vuole un mondo organizzato e coerente. Fino al punto di litigare con gli autori della storia, perché c’è sempre qualcosa che non torna.

Qui arriviamo all'annoso problema della cresta dei Klingon. Nella serie storica non c’era. I Klingon hanno cominciato a portare la cresta solo vent’anni dopo. Questa cosa inquieta il nerd, che vuole sapere il perché (According to the official Star Trek web site, the Klingons' varying appearance is "probably the single most popular topic of conversation among Star Trek fans). Il perché sarebbe presto detto: negli anni Sessanta il Klingon era il cattivo asiatico in un telefilm a basso costo; trent’anni dopo è un fenomeno culturale in una franchise miliardaria, il minimo che si potesse fare era truccarlo meglio, farlo meno umano e più alieno… questa spiegazione non può soddisfare il nerd, perché esce dall’universo chiuso e mitologico di Star Trek e si ricollega al mondo reale, a problemi prosaici come il budget. No, il nerd vuole una spiegazione mitologica che risolva la contraddizione per cui i cattivi del capitano Picard hanno la cresta e i loro nonni no. Vengono quindi elaborate numerose teorie: clonazioni? Mutazioni genetiche causate da incidenti nucleari? E perché non chirurgia estetica? Finché finalmente gli autori non acconsentono a spendere un paio di puntate per fornire ai nerd una spiegazione canonica. Quella discrepanza, quel segno di discontinuità, minacciava l’autocoerenza della mitologia di Star Trek. Era una fessura verso il mondo reale e le sue brutte incoerenze. Doveva essere risolta, spiegata, illuminata. La mitologia uccide il mito inondandolo di luce, e chiudendo i portali oscuri che lo riconducevano alla realtà. Una mitologia perfetta si racconta da sola: intricata, ma ormai slegata dal mondo, può interessare ancora soltanto chi è cresciuto sentendola raccontare. Chi viene da fuori si tiene istintivamente a distanza. Le ragazze specialmente (invece voi maschietti non perdetevi la prossima puntata, in cui sarà finalmente rivelato il mistero di Lost!)

mercoledì 10 febbraio 2010

La ruota di Rodi

Il mistero di Lost

Non è più la botola, vero? da un pezzo. Non è più l’orso bianco. I numeri da digitare. Il mistero di Lost non è più la Dharma, non sono più gli Altri. Il mistero di Lost. Non è più la questione se Locke sia tetraplegico o no (a proposito, è vivo?) Il mistero di Lost. La sfinge? Il fumo nero? Il mistero. Forse ho capito.

(Immaginatevi un bel rumore di fondo mentre mi metto a parlare di tutt’altro).

Siamo su un’isola, ma questa almeno sta sulle cartine: Rodi. Sappiamo anche in che anno siamo (più o meno): il quattro prima o dopo Cristo. Da qualche tempo qui abita un personaggio d’eccezione, in una fase molto particolare della sua vita. È stato un Claudio Nerone, ora si chiama Giulio Cesare, ma è un po’ come se un nome valesse l’altro. Già grande condottiero, uomo di potere e assai influente, ma ora non comanda più nessuno: anzi, forse si nasconde alle cure di chi lo vuole morto. Un giorno quest’uomo tornerà ad essere qualcuno molto importante, e sarà ricordato col nome di Tiberio Augusto, secondo imperatore di Roma. Ma per adesso, in effetti, non è più un generale e non è ancora un Augusto: non è niente. E ha molto tempo a disposizione. Come lo impiega? Ci sono diverse teorie. Sappiamo che scriveva poesie – probabilmente niente di speciale. E che aveva una curiosità morbosa per i miti degli antichi. Secondo Robert Graves “aveva ideato e composto un’enorme carta genealogica, di forma circolare, in cui le ramificazioni raggiavano dal centro, occupato dal Caos, primissimo antenato della razza umana, padre del Padre Tempo, verso una confusa periferia fittamente cosparsa di ninfe, di re, di eroi”. Ecco dunque cosa faceva Tiberio in vacanza da sé stesso: il mitologo.

Una contraddizione in termini, dicono (Sì, Jesi non sarebbe stato d’accordo, ma non facciamola troppo complicata). Il mito è un racconto di misteri, il logos un discorso razionale. Cosa vogliono quindi questi mito-logi: portare logos dove non ce n’è? Svelare il nulla dietro le favole dei popoli bambini? Sicuri che non siano invece spie, emissari del mito, venuti a contrabbandare l’irrazionale nella cittadella del logos? Qual era il vero disegno dell’uomo di Rodi? Quando diventerà imperatore, amerà terrorizzare i suoi consulenti con domande velenose: chi era la madre di Ecuba? Che nome assunse Achille quando si travestì da fanciulla? Forse l’imperatore mito-logo voleva semplicemente mostrare che colossale perdita di tempo sia, la mitologia. Il passatempo degli uomini soli che non hanno più una posizione nella vita e nell’Impero. Che senso ha voler mettere ordine in un guazzabuglio di storie che si contraddicono? secondo alcuni Cerbero è figlio di Tifeo, secondo altri è suo nipote, chi ha ragione? Ma soprattutto, a chi importa? Certe cose semplicemente non le sappiamo, perché il Mito non dice tutto. Non sarebbe Mito altrimenti. È una parola misteriosa, che nasce dalle tenebre e ci torna immediatamente, lasciando solo un lampo di luce: un arcaico tentativo di spiegare questo o quel fenomeno naturale, magari ciò che resta di un antica risposta data a un bambino: Papà, cos’è quel fulmine? Sarà la rabbia di un uomo potente. Ha la barba? Boh, sì. Con chi se la sta prendendo? Coi bambini cattivi che fanno troppe domande. Probabilmente Zeus è nato così, ma è difficile pensare che un Tiberio del primo secolo avanti/dopo Cristo ci creda ancora. Se cerca di mettere nero su bianco la genealogia di Zeus e compagni, è (a) perché ha molto tempo da perdere; (b) vuole svelare le contraddizioni della cosiddetta sapienza tradizionale, magari (c) divertendosi alle spalle dei creduloni; ma non si può escludere che (d) tutte queste storie non più credibili lo affascinino ancora. Metterle in ordine forse è l’unico modo per potersele ancora raccontare. Non è più un bambino che può credere alle fate e ai fauni, ma non è ancora un adulto. È in una fase intermedia, in cui applica alle storie dell’infanzia gli schemi razionali della vita adulta: bilanciando col rigore scientifico la futilità della ricerca. Né bambino, né uomo: è un nerd.

Il bambino vuole sempre la stessa Storia: lo stesso buio, lo stesso lampo, lo stesso finale. Le tenebre tutto intorno non lo interessano, non ha la minima intenzione di rischiarare l’oscurità tra una storia e l’altra. Non c’è continuity tra Cappuccetto Rosso e Cenerentola; ognuna va per la sua strada, e quando arriva il Principe Azzurro la fiaba finisce senza discussioni. L’età mitica finisce quando nascono alcune domande: quanti figli avranno avuto? Saranno stati davvero felici? Ma parliamo dello stesso Principe di Biancaneve, aveva divorziato? E quale delle due ha incontrato per prima? Questo non è più mito, è mitologia. Roba da adolescenti. Vogliono sapere tutto, e con chi si è messo quello, e perché non è rimasto con quell’altro… fine dei lampi nella notte, ora viviamo alla luce diffusa e biancastra di una sala d’aspetto, tutt’intorno a noi un chiacchiericcio diffuso, un intreccio di relazioni complicato come la ruota di Tiberio, e più nessun autentico mistero. Zeus perde gli attributi terribili del Dio del tuono e si trasforma lentamente in un signorotto di campagna che si accoppia con chiunque gli capiti a tiro... (non perdetevi la prossima puntata, dove senz’altro sarà svelato il mistero di Lost).

lunedì 8 febbraio 2010

I tre futuri di Avatar



Non importa avere l’esercito più potente della galassia, con le armi più distruttive dell’universo, se nella cabina di comando c’è ancora un uomo. Al culmine della tua potenza di fuoco, sarà proprio l’uomo a tradirti. Non importa avere l’industria dei sogni più ricca e pervasiva del mondo: alla fine tutta la tua potenza di fuoco ti si rivolgerà contro, se in cabina di regia avrai commesso l’imprudenza di lasciare un canadese affezionato ai sensi di colpa dei conquistatori del Nuovo Mondo. Così avrai speso miliardi di dollari per produrre un film che predica alle masse la bellezza di un impossibile ritorno alla natura e alla comunione con tutti gli esseri viventi. Avatar è una contraddizione in termini, lo hanno già scritto in tanti: un blockbuster industriale che sogna la fine (violenta) dell’industria, perfettamente incarnato nel marine Jack Sully che tradisce il suo colonnello. Qualcuno l’ha anche accusato di essere una mera rivisitazione digitale di storie già raccontate: la vicenda di Pocahontas, e in generale un ripasso delle pagine più buie della Storia americana, dallo sterminio dei nativi americani alla guerra del Vietnam. Ma faremmo un torto a Cameron se non gli volessimo riconoscere un talento visionario che non si è limitato a ricombinare frammenti di passato. In Avatar il futuro c’è, anzi (secondo una mia teoria) ce ne sono almeno tre.

Il primo futuro è quello prospettato all’inizio del film: una razza umana in fuga infinita dalla terra esaurita e intossicata. L’umanità è un parassita tecnologico che brucia e avvelena tutti i mondi su cui mette piede. Questo i Na’vi, le creature blu di Pandora, lo intuiscono: ma forse non ne trarrebbero le dovute conseguenze se non arrivasse tra loro il marine Jack, un vero e proprio anticorpo dell’umanità inoculato nel corpo di un indigeno: è proprio la sua irruenza, sconosciuta ai nativi, a guidare il popolo blu verso la lotta contro l’invasore. E c’è comunque qualcosa di potente in un film che ti spinge a stare dalla parte degli alieni contro gli umani. In un mondo sempre più ossessionato dall’identità, dalla cultura, dalle radici, un film popolare che ti propone di cambiare corpo e di passare dalla parte dell’altro-da-te è qualcosa da salvare.

Il secondo futuro è molto più vicino a noi. Che probabilmente non fuggiremo mai tra le stelle: resteremo su questo pianeta sempre più sporco, cercando di venire a patti coi suoi limiti e coi nostri. Saremo sempre di più e dovremo razionare le risorse. Di fronte a questa deprimente prospettiva, il film di Cameron ci suggerisce una valvola di sfogo: avremo sempre la possibilità di fuggire nei paradisi artificiali della fantasia digitalizzata. È stata sufficiente la riscoperta di una tecnologia tutto sommato ‘vecchia’ come il 3d, per trasformare un’antica abitudine come il cinema in un viaggio psichedelico: non c’è motivo di dubitare che i divertimentifici del futuro insisteranno sempre di più su questa immersione dello spettatore in un mondo nuovo. Dopo gli occhialini verranno i caschi, le tute, le capsule di sospensione. Saremo tutti, nel futuro, condannati come Jack Sully a una vita frustrante e immobile (la sedia a rotelle è una metafora tanto sfacciata quanto azzeccata): ma avremo tutti la possibilità di immergerci, di tanto in tanto, in un universo variopinto e tridimensionale, dove un popolo immaginario ci acclamerà come eroi. Pandora non è un pianeta lontano, Pandora è il futuro della settima arte. A Cameron è mancata l’onestà per girare il ‘vero finale’ del film: Jack Sully riapre gli occhi e si ritrova di nuovo in una capsula umana. Qualcuno apre il portello: è il bigliettaio che lo informa che il film è finito.

Il terzo futuro è una variante estrema del secondo. L’industria dei sogni non è che l’avanguardia dell’industria vera: se Cameron ha potuto immaginare Pandora, qualcuno prima o poi riuscirà a realizzarla. Perché no? Il pianeta pensante che trattiene i pensieri delle creature in fondo cos’è, se non una enorme rete di condivisione delle informazioni? Gli esseri viventi che lo popolano, umanoidi, equini, grifoni, non sono che pezzi di hardware, con tanto di presa di connessione universale. Pandora insomma ha tutta l’aria di essere l’internet 9.0. In fondo, prima o poi anche l’esperienza degli utenti diventerà tridimensionale. A quel punto il mondo virtuale che condividiamo con gli altri utenti prenderà una forma che sarà modellata sui nostri ricordi e sui nostri sogni. Conterrà i nostri sensi di colpa di ex conquistatori pentiti, ma anche il vago misticismo di cui non abbiamo saputo liberarci, la nostalgia per l’equilibrio della natura, e così via. Il risultato non dovrebbe essere molto diverso da Pandora. I Na’vi non vivono su un pianeta lontano, ma sono i nostri avatar del futuro. Un futuro in cui spenderemo qualsiasi cifra per proiettarci in un mondo variopinto e incontaminato (e se per realizzarlo occorrono risorse difficili da reperire, localizzate nei luoghi sacri di un popolo antico e sottosviluppato, chissà se ci faremo qualche scrupolo a mettere in atto le solite pratiche di sterminio. Si fa qualsiasi cosa per i sogni).

venerdì 5 febbraio 2010

Nella polvere ci ritroveremo

In questo pezzo vorrei approfittare della presentazione dell'ultima Cosa Meravigliosa di Steve Jobs per spiegare perché non sono un Mac.

Cos'è questo boato?

Ma sì, è chiaro che non sono un mac, lo si vede da lontano. Puoi dirlo da come mi vesto, da come cammino - a certe persone l'eleganza semplicemente non calza, puoi vestirli di tutto punto e sembreranno dei pinguini. Io per esempio sono una persona maldestra e apprensiva. Rompo molti oggetti, perché li maneggio male. Ho le dita tozze, riflessi scarsi, e malgrado questo mantengo una certa manualità spavalda, che mi spinge a sperimentare, a spingere le cose al limite, a sfidare quotidianamente il dio dei piccoli incidenti domestici. Poi le cose si rompono, e io ne soffro. Ne soffro molto, con un'intensità che alla mia età è imbarazzante, voglio dire, sono solo... cose. Ma costano, e mi fanno sentire piccoloborghesemente colpevole in misura proporzionale al prezzo. Questo mi tiene istintivamente lontano dai prodotti di gamma medio-alta: io non sono Mac perché se fossi Mac, e mi facessi male, ne soffrirei troppo. Lo so qual è la vostra obiezione.
I Mac non si rompono.
Le batterie non si surriscaldano. I ventilatori non si impregnano di polvere – la polvere nei Mac non ci entra proprio, c'è una specie di karma elettrostatico che glielo proibisce. I Mac non cadono dal tavolino, ma se dovesse succedere probabilmente cadono in piedi, da bravi felini. Il software dei Mac è il migliore dell'universo e non grippa mai.

E questo ci porta al secondo problema. Io non sono un Mac, ma coi Mac ci ho lavorato. E so che non è vero quel che dite, insomma, è un'impostura. I Mac si guastano. Si surriscaldano. Cadono, come tutti i gravi di questo mondo, e spesso dal lato imburrato. Il software si pianta. Per esempio c'è stato un periodo nel 2004 in cui questo blog piantava i Mac, di sasso. Neanche una schermata blu, niente: il vecchio orologino cominciava a girare e continuava in eterno, bisognava staccare la spina (ok, succedeva solo con explorer, e Bill Gates ne era senz'altro più colpevole di Jobs, ma succedeva. I Mac si piantano, è nel novero delle cose possibili). La Apple ha dei centri di assistenza come tutte le aziende di questo mondo, e fanno incazzare i loro utenti come tutte le aziende di questo mondo. Può darsi che si rompano di meno: è il minimo, coi prezzi che fanno. Ma questa storia dell'immortalità dei Mac è pura superstizione. E non mi piace.

Non è che siano tutti così, gli utenti Mac. Ne conosco tanti che sono normalissime persone, magari un po' più eleganti della media, che comprano prodotti di gamma medio-alta per lo stesso motivo per cui io li scanso, e che quando si guastano se ne lamentano. Però ci sono anche quelli che a un certo punto della conversazione tirano fuori l'argomento: “non dà mai problemi”. Dimmi che sono meno vulnerabili. Dimmi che hanno un customer care migliore (sarebbe una bugia, ma accettabile). Ma non dirmi che i software e gli hardware di Jobs non hanno mai mai mai mai problemi, perché io davanti a dei mac impallati ci ho passato delle ore di vita, e di lavoro, e mi pagavano pure a progetto, maledizione.

Cosa porta gli utenti Mac (non tutti, ma comunque troppi) a santificare i prodotti che comprano, arrivando a negare che possano avere difetti o problemi?
a) Alcuni sono i ricchi. I ricchi certe volte semplicemente non fanno in tempo a rendersi conto. Cambiano laptop ogni diciotto mesi, e quindi non sanno cos'è l'usura. Hanno sempre gadget belli puliti e veloci e credono sia merito della tecnologia di Jobs, e non dei loro fottuti soldi. Però li posso capire, hanno un'esperienza limitata delle cose.
b) Alcuni sono in cattiva fede. Di notte, quando nessuno li vede, bestemmiano i numeri verdi come gli altri poveri mortali. Però ormai al bar si sono fatti conoscere come quelli che Pensano L'Impossibile e altre menate di marketing, e devono reggere il personaggio. Quindi vanno in giro a parlare di quanto siano indistruttibili i mac e di come tutti ce l'abbiano con loro perché sono invidiosi eccetera eccetera. Li posso capire, hanno un personaggio da reggere.
c) Poi ci sono quelli che ci credono davvero. Ecco. Questi sono quelli che mi spaventano sul serio. Io lo so che ogni fideizzazione è un atto di Fede: lo dice la parola. Ma i clienti fideizzati, poniamo, della Mercedes, non arrivano a negare che la loro macchina possa avere avuto anche problemi, per esempio al radiatore. O lo fanno? In tal caso mi spaventa anche la Mercedes.

Io non sono (a), ma mi piacerebbe ogni tanto esserlo. Non sono (b), ma in tante cose ci somiglio. Quello che veramente non voglio essere, quello che non sarò mai, è Mr (c). Io non voglio essere Mac perché la Apple mi spaventa come concetto. Io non sopporto i clienti Mac perché fanno propri gli slogan pubblicitari della loro ditta preferita, una cosa che mi sgomenta: credono alla pubblicità. Io non credo alla pubblicità, da quando avevo cinque anni e mi spiegarono che non è vero che chi non mangia la Golia o è un ladro o una spia. È un punto fermo della mia educazione: gli slogan mentono. Se uno mi dice “Less Is More” non penso “wow, che profonda verità metafisica”, penso “cosa vorrà fottermi questo coniatore di slogan? Uhm, diffidiamo”. Io ho paura quando sento o vedo o leggo tutti i clienti Mac che parlano bene del loro prodotto. È una cosa che mi terrorizza, come l'invasione degli ultracorpi. Tra l'altro è una cosa per niente italiana.

Io sono un italiano maldestro e apprensivo, che trova consolazione nel poter maledire, a qualsiasi ora, tutti i grandi marchi dai quali dipende la sua vita: telecom, vodafone, enel, autostrade, trenitalia, eni, microsoft, samsung, nokia, acer, HP, ministero della pubblica istruzione: non posso vivere senza di loro, ma mi consolo odiandoli con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima. Come un abitante dell'inferno di Dante (altro luogo assai italiano), consolo le mie sofferenze prospettando pene ancora più atroci per gli amministratori delegati che per avermi succhiato sangue lacrime ed ore di callcenter mi raggiungeranno presto, precipitando verso luoghi più profondi. Questa è l'unica consolazione del consumatore moderno, secondo me. Invece il cliente Apple è un tale che sembra appena sceso malvolentieri dal Nirvana, dove ha fatto quattro chiacchiere con Shiva, Maometto e la new entry Steve Jobs, per informarci del nuovo celestiale gadget. Il gadget sarà celestiale quanto vuoi, ma fratello, ripigliati. Nessuno s'innamora del suo spacciatore, non è sano. Quelli che ti vendono i prodotti sono i tuoi nemici. Tu hai bisogno di loro, non puoi più vivere senza di loro, ma non importa: sono tuoi nemici lo stesso. Li devi maledire, li devi odiare, devi andare alle presentazioni e urlare maledizione, Steve, è tutto qua? Un tablet senza presa usb, per chi cazzo ci hai preso? Per dei bambini di cinque anni che hanno bisogno della versione Elettronica del Gioco dell'Oca così la tata filippina non accuserà più il colpo della strega cercando i dadi sotto il divano stile impero? Puoi fare meglio di così! Devi fare di meglio! Altrimenti passo a... boh, all'Asus.

Questa è la mentalità PC. Nessuno è PC perché ama Bill Gates o l'orda dei suoi leccaculo. Più di ogni Mac, il PC odia il PC, e se ha deciso di restare PC è proprio per potersi odiare tutti i giorni. Si decide di essere PC perché l'odio per il proprio fornitore di hardware/software è una cosa sostanzialmente sana, una valvola di sfogo, e forse anche un modo per spingere il mercato a fare di meglio. E a volte ha funzionato, perfino con la Microsoft. Di sicuro ha funzionato con la Apple. Voglio dire che il vero patrimonio della Apple non sono i fanboy pronti a comprare e adorare ogni prodotto rivoluzionario a scatola chiusa. Sono gli utenti brontoloni, quelli che piantarono una grana perché il primo Iphone non aveva il copia incolla, e oggi protestano perché la nuova Cosa Meravigliosa non è multitasking. Si impara dalle critiche, non dall'ammirazione.

Io sono PC. Sono scadente e maldestro, ma del resto anche l'universo lo è. È pieno di oggetti imperfetti che si rompono. Molta gente ha bisogno di vedere il Sacro Graal, o il Gadget Perfetto ogni sei mesi, ma io no. Anche se mi regalaste il Graal, mi cadrebbe di mano, lo scheggerei, maledirei i numi. Sono fatto così, ma il punto è che siete fatti così anche voi. Regalatevi pure il nuovo oggettino, ma ricordate: l'universo è graffi, cadute, crash di sistema, bug, surriscaldamenti, entropia, e polvere soprattutto, tantissima polvere. Particelle dei gadget dei nostri antenati.

martedì 2 febbraio 2010

Ippopotami italiani

Berciami ancora(*)

In questa immagine potete vedere un vaso. Oppure due volti di profilo. O ancora l'ultimo film di Muccino, che per buona metà è impaginato così: faccia a sinistra, faccia a destra, e in mezzo una coppa nera di frustrazione che può comunque sparire da un momento all'altro stritolata in un bacio che non è mai, accidenti, l'ultimo.
Ma il più delle volte le bocche sono spalancate, i volti sono rossi, e tutti si stanno urlando addosso. Nei minimi termini il film è questo: un rosario di scene madri tra due personaggi che dopo un po' si gridano in faccia le peggio cose. Che i personaggi dei film italiani contemporanei tendessero al melodramma urlato si sapeva, ma qui sembra veramente che non ci siano alternative: ogni dialogo è uno scontro, e gli scontri si risolvono così: faccia contro faccia, chi urla più forte vince (analogie tra gli italiani e gli ippopotami del Kenya). Qualcuno dirà che è liberatorio. Secondo me no. Secondo me il mimetismo vince su tutto, secondo me il 40% di chi è andato a vederlo ha sentito l'esigenza di mangiare la faccia del partner nel tragitto verso casa.

“Non vedo l'ora di mettermi a letto”.
“Io invece mi scongelo una pizza”.
“Certo, così mi sporchi tutta la cucina”.
“Senti, ma se ho fame... e poi PERCHE' MI DEVI PRENDERE COME UN IDIOTA MALEDETTA STRONZA TI AMMAZZO! TI AMMAAAAAZZZZOOOOOOOO!”


Metà del film così. L'altra metà propone la variante: invece di fissarsi come ippopotami allupati, i due volti guardano in camera, grazie all'invenzione più importante dell'ultimo secolo: l'Automobile. Essa ha rivoluzionato i nostri costumi e forse sì, vabbè, può aver contribuito a intossicare l'atmosfera, ma in compenso ha permesso ai nostri valenti film-maker qualcosa che altrimenti sarebbe irrealistico: far discutere i personaggi mentre guardano dritto verso di noi. Si capisce la convenienza, perché nelle scene di profilo butti via un 50% di faccia che comunque devi pagare lo stesso intera (e con quel che può costare al giorno d'oggi la faccia di un Accorsi o di un Favino...) E soprattutto, l'avrete sperimentato nella vostra realtà vera, certe scenate si possono fare solo in una macchina pressurizzata ai cento all'ora – a casa no, c'è rischio che i vicini s'appassionino.

Lo so cosa state pensando. Stronca Muccino, che coraggio, domani mitraglierà la croce rossa... no. Sette anni fa, quando stroncare GM era già sport nazionale, io resistevo. Una possibilità a GM l'ho sempre voluta dare, perché fra tutti i registi di film bruttini gli riconoscevo almeno una cosa che faceva la differenza: il ritmo. Per quanto potesse apparire simile a tutti quei registi romani persuasi di ritrarre una generazione attraverso i complementi d'arredo dei salotti, Muccino aveva qualcosa che parzialmente lo riscattava, ed era proprio la spudoratezza: i salotti rimanevano salotti, ma vuoi mettere, col carrello circolare! La grammatica dell'action movie applicata agli amorazzi dei trentenni, l'handycam che ti segue nel corridoio stretto verso il bagno in fondo a destra. Le isteriche che piangono hanno fatto il loro tempo? Ok, proviamo con le isteriche che urlano in mezzo alla strada! Le isteriche sotto la pioggia! E se dobbiamo ritrarre borghesi inutili, almeno ficchiamocene dentro un centinaio in due ore: sovraccarichiamo il sistema finché non si rompe qualcosa.

Qualcosa si ruppe davvero. L'ultimo bacio e Ricordami di me sono stati l'esplosione, in tutti i sensi, di un genere di cui Ozpetek e colleghi hanno faticosamente raccattato i pezzi per ribollirci il solito passato sciapo di buoni sentimenti. Ma il Muccino di dieci anni fa se li friggeva, i buoni sentimenti. Non aveva pietà di nonne o di ragazzini, disprezzava tutti e non lo mandava a dire. Probabilmente quei due sono gli unici film-italiani-bruttini che reggono ancora la prova televisiva in seconda serata. Vanno giù come piloti di serie americane, ed è il complimento migliore che si possa fare a GM. Il quale, scheggia impazzita detonata coi suoi film, si era ritrovato catapultato ad Hollywood. Tifavo per lui. La tecnica l'aveva, il coraggio pure: quello che gli mancava erano le storie originali, proprio quelle che gli americani sanno trovare. Hollywood gli avrebbe tolto di mano i soliti triti canovacci generazional-amorosi, gli avrebbe presentato qualche soggettista degno di questo nome e... un film in effetti funzionò, l'altro meno, così l'avventura sembra già finita. Però almeno hai avuto un'avventura, Gabriele Muccino. Hai fatto film con Will Smith, sei stato per due stagioni alla catena nell'autentica fabbrica dei sogni. Adesso non è che puoi tornare a rifriggere le solite storielline amorose per il pubblico bue italiano. Sarebbe come dire che hai perso l'unica cosa buona che avevi, il coraggio. E un Muccino senza coraggio cosa mi diventa. Un Ozpetek eterosessuale, un soprammobile inutile e per giunta in serie, ce l'hanno uguale i vicini, buttare via.

Baciami ancora non è nemmeno un film generazionale: non sappiamo niente sulla vita dei personaggi, sui loro gusti o le loro idee (ce n'è uno che vota Fini, il che può voler dire qualsiasi cosa ormai). Fanno cose che avrebbero potuto fare dieci o vent'anni fa: i grandi spot pubblicitari, i bambini disegni di dinosauri. E tutti corrono nel grano. Dire qualcosa sugli anni Zero era troppo rischioso: facciamoli piuttosto reinnamorare disperatamente, che funziona sempre. Magari in questi dieci anni hanno avuto una vita interessante (droga, pazzia, carcere), ma appena torna Muccino col suo teleobiettivo tutto sprofonda di nuovo nell'ossessività dei rapporti amorosi banali, fedeli alla regola per cui la vita dei personaggi del cinema italiano bruttino dev'essere meno interessante di quella della media degli spettatori (sul serio, io ho giornate molto più interessanti di quelle dei personaggi di Muccino).

Baciami ancora è un chiodo sulla bara dell'industria cinematografica italiana, gestita da personaggi che sembrano terrorizzati dall'idea di poter dire qualcosa di nuovo, qualcosa d'intelligente, o persino di stupido, insomma qualcosa. Ma L'ultimo bacio qualcosa lo diceva. Era un film che si permetteva del cinismo, aveva un finale spiazzante che è rimasto in testa a tutti. Il sequel si guarda bene da spiazzare alcunché. Se c'è un suicidio non preoccupatevi, ve lo facciamo capire un'ora prima. Nel derby della scena-madre-in-camera-ardente Muccino le prende persino dall'Ozpetek di Saturno contro, come dire perdere con l'Albinoleffe in casa, rivogliamo il prezzo del biglietto. Quando dopo un paio d'ore risenti la voce fuori campo di Accorsi, capisci che è la classica voce off che tira le somme, e ti rendi conto di quanto poco ha voluto dirti questo film: Dicono che i quarant'anni siano l'età della maturità. Ma forse la vita comincia a cinquant'anni. O a Sessanta. O chi lo sa. Buio in sala, Giro di do jovannottesco, titoli. Due ore e venti per sentirsi dire che la vita va vissuta... Nostalgia dei carrelli circolari. Non che dicessero nulla di più, ma almeno ti facevi un giro in giostra. Muccino sembra aver paura di dire persino: ehi, sono sempre io, Muccino. Un regista con un determinato stile. Ma se poi ti scambiano per un Autore, di quelli che fanno i film d'Autore? C'è il rischio che il pubblico dei cinepanettoni non ti caghi più! Poi si accendono le luci, e il pubblico dei cinepanettoni corre a casa a guardarsi una puntata di Desperate Housewives che con personaggi da fumetto e una trama totalmente surreale ti dice più cose della tua vita che due ore di quarantenni che si urlano in faccia. Prima o poi a Roma bisogna che si mettano in testa una semplice cosa.

Non è che al cinema ci si va per specchiarsi – oddio, sì, può capitare anche di specchiarsi in qualcuno, ma è sempre qualcuno migliore di noi. Come minimo è più bello. Probabilmente veste meglio, ha la risposta pronta che a noi verrebbe in mente mezz'ora dopo. Perché al cinema ci si va per cercare dei modelli. Nessuno sano di mente crede di specchiarsi in George Clooney. Le persone vanno a vedere George Clooney perché vorrebbero diventare un po' come lui, risolvere un problema come lo risolve lui alla fine del film. Migliorare, perché persino lui ci prova. Questo è il segreto del cinema americano: modelli, non specchi. Strategie per risolvere un problema, non persone che si urlano in faccia i loro problemi irrisolti e magari uguali ai tuoi. A me non interessa se i quarantenni romani passano le giornate a gridarsi Ti-Amo-Ancora-Non-Ti-Amo-Più. Se davvero fanno così, bisogna convincerli a cambiare, a migliorare un po'. A coltivare altri interessi che non siano quelli di portarsi a letto qualcuno, restare incinta di qualcuno, riconquistare qualcuno. A gestire gli scazzi in un modo meno mediterraneo, perché sul serio, non possiamo continuare a urlare tutti quanti così. Dopo due ore ti ritrovi l'Impacciatore sul tombino che sembra una prefica del Seicento, stiamo regredendo a vista d'occhio. Ci sono altri modi di discutere che non prevedono necessariamente l'Urlo Preventivo, la Minaccia di Morte (“Giuro che t'ammazzoooooo!”), lo Specchio Riflesso (“Fottiti!” “Fottiti te!”. Era la clip che hanno portato domenica da Baudo). Non stupisce che dopo un po' comincino a urlare anche i bambini. Di colpo, dallo stand-by silenzioso (“Vuoi che ti presentiamo tuo padre?” “...”) allo stadio isterico (“Dai, se vuoi ti presentiamo tuo p...” “Ho detto di NO MALEDETTI STRONZIIIIIII!”)

Anche qui, guarda gli americani. Dialogano anche loro, di amore e di altre cose. Eppure non urlano, o magari sì, ma una volta su dieci. Hanno altri sistemi per scambiarsi i pareri: per esempio, l'ironia. Nell'ultimo bacio ce n'era un po', di ironia. Qui no, niente, il pubblico potrebbe non capire. Per ridacchiare dobbiamo aspettare che Favino incocci un muro: comicità fisica, perché chi ha rivisto la sceneggiatura temeva che una battuta di troppo possa essere fraintesa dallo spettatore di Neri Parenti. Poi lo spettatore di Neri Parenti torna a casa e si guarda le repliche del dottor House che fa ironia con le proteine e le malattie infettive.

Questo è un cinema sbagliato. Un cinema che col pretesto del realismo peggiora la realtà, ci ruba due ore e venti e ci lascia tramortiti come un vecchio amico che non senti da dieci anni e poi ti tiene un pomeriggio al telefono, urlando i suoi problemi senza che tu possa offrirgli una soluzione. Se si calma, alla fine, è per stanchezza: quella che prende tutti quanti alla fine del film. I due tizi si rimetteranno assieme, continueranno a scambiarsi baci e soprattutto urla, perché non sono mai cresciuti, la vita di coppia per loro è ancora quella di due quindicenni isterici, e non ci sono alternative: la vita è così. No, maledizione, noi possiamo essere migliori di così. A nessuno piace essere sé stesso, neanche al dottor House. Vogliamo tutti avere una chance di migliorare, e abbiamo bisogno di scrittori, di registi che ce la mostrino. Di attori che ce la impersonino. E di critici che ti mandino seriamente a quel Paese, GM: torna in America, fatti restituire quel coraggio e quel cinismo che erano le uniche cose interessanti che avevi.

* Il titolo l'ho scopiazzato da qui, grazie a M. Elena.

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