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venerdì 8 agosto 2014

L'ultima passeggiata dei Beatles

Non è questa - questa fu scartata (ma la preferisco).
 8 agosto 1969 - Quattro Beatles attraversano una strada, un fotografo li immortala in una delle copertine più famose di tutti i tempi.

Abbey Road non è probabilmente il miglior disco dei Beatles. Non è il più conosciuto: soltanto i due capolavori di Harrison e Come Together sono noti al pubblico dei non appassionati. Non è l'ultimo - anche se fu l'ultimo a essere registrato, ma Let It Be suona molto più postumo. Non è il più allegro e non è il più triste. Abbey Road è semplicemente l'album più venduto dei Beatles: record imprevedibile che deve in parte alla sua copertina, e alla buffa leggenda che ne nacque immediatamente (la morte di Paul), procurando al disco una dose supplementare di pubblicità. Le voci di un probabile scioglimento fecero il resto (ma Let It Be, l'anno seguente, non vendette altrettanto bene). L'ironia è che si tratta di una delle copertine meno studiate di tutta la storia dei Beatles.

Nulla di paragonabile alla posa 'esistenziale' di Freeman per With the Beatles; alla composizione di Voormann per Revolver; allo spericolato patchwork di Sgt Pepper's che mobilitò i legali della EMI; al minimalismo estremo del Disco Bianco. La copertina di Abbey Road è un'idea dell'art director della Apple, che ebbe il semaforo verde probabilmente perché richiedeva il minimo coinvolgimento possibile da parte dei quattro musicisti: pochi minuti di posa, sette scatti, fine. È difficile rendersene conto, dopo averla vista riprodotta e parodiata in centinaia di situazioni - dai Red Hot Chili Pepper nudi al quartetto vocale dei Simpson - ma quella di Abbey Road è una copertina tirata via. È persino goffa, come è sempre goffo chi cammina di profilo in un fermo immagine. La scelta di usare lo scatto più simmetrico contribuisce a dare una sensazione di impostura. La gente non cammina così. Neanche i Beatles camminano così. C'è qualcosa che non va. Qualcosa che non volete dirci. Forse dando un'occhiata ai dettagli - le targhe, il colore delle auto...

Nello scatto finale (che non è neanche questo),
I Beatles non vanno verso gli studi di Abbey Road,
ma provengono da lì (e se ne stanno andando).
L'ipotesi è che dietro ogni leggenda urbana vi sia una percezione di inquietudine. A volte è una nozione che non si vuole accettare, un concetto che si vuole correggere con l'immaginazione. Le scie chimiche sono probabilmente il modo in cui una piccola parte dell'umanità sta reagendo alla nozione di riscaldamento globale. Se il clima cambia, sarà colpa di un complotto malvagio; e la soluzione sarà semplice e immediata come spruzzare un po' d'aceto. La leggenda della morte di Paul nasce nel tentativo di superare irrazionalmente una consapevolezza ormai diffusa: i Beatles non esistevano più. Era chiaro per chiunque avesse ascoltato il disco bianco - cioè per tutti - che i quattro musicisti milionari stavano prendendo vie diverse e inconciliabili. Era una nozione che doveva ormai aver raggiunto la pre-razionalità di milioni di ascoltatori. Un'idea fastidiosa da scacciare in un qualche modo - ed ecco nascere la leggenda: non sono i Beatles a morire, è solo Paul. Un freudiano potrebbe divertirsi a invertire: se Paul morisse, forse i Beatles potrebbero ancora vivere...

I Beatles si sono sciolti per tanti motivi: uno di questi è il tentativo di Paul McCartney di dare al gruppo una direzione, sia a livello artistico che di management. Tentativo che aveva senso, in un momento in cui Lennon era diviso tra Yoko Ono e l'eroina. Ma che non poteva non infrangersi contro la diffidenza degli altri tre. Lennon e Harrison stavano tutto sommato seguendo l'evoluzione del rock britannico di quegli anni: c'era stata la fase psichedelica, l'infatuazione per l'oriente, il ritorno al blues. McCartney, per contro, da Sgt. Pepper in poi aveva autonomamente stabilito che il destino dei Beatles sarebbe stato l'eclettismo. Nessun tipo di musica doveva restare fuori dai loro dischi: da cui classici per banda d'ottoni (When I'm 64), vaudeville anni Venti (Honey Pie), e altre musichette irritanti (Obladì, Obladà) che nessun gruppo di ventenni avrebbe mai avuto il coraggio di registrare. Su Abbey Road è la volta di Maxwell's Silver Hammer, un altro brano estremamente cantabile su cui McCartney - nel tentativo forse di suonare meno stucchevole - monta un testo bislacco e violento. L'altra sua canzone 'intera', sul primo lato, è un pastiche di Fats Domino (Oh! Darling). Il vero contributo di McCartney al disco è la struttura del secondo lato, il mini musical che comincia al termine di Here Comes the Sun, qualcosa di simile alla scarica finale dei fuochi artificiali. Alla fine di otto anni di collaborazione, in capo a dieci dischi pieni zeppi di successi, i Beatles salutano il pubblico con venti minuti di canzoni ininterrotte, nessuna particolarmente riuscita: ma l'effetto complessivo strappa comunque l'applauso. A seconda di come la pensi sui Beatles può essere la cosa migliore o peggiore che abbiano fatto. Per Lennon era "spazzatura": eppure suoi sono alcuni dei momenti più divertenti. Ma l'idea era chiaramente di Paul.

Un bus a due piani in effetti ci sarebbe stato bene
(immaginate la faccia del conducente).
Anche stavolta, il concetto del musical aveva un senso: altri modi per riempire quel lato probabilmente non c'erano. Il gruppo aveva iniziato le sessioni di registrazione sapendo già che era l'ultima avventura - il che aveva paradossalmente calmato gli animi. Ma è la calma dei divorziandi, quando ormai sai che certe discussioni non devi semplicemente farle. Schiacciare undici canzoni in una facciata era probabilmente l'espediente migliore per evitare di mettersi a discutere su cosa tenere e cosa buttare: stringiamo un po' e ci sta tutto. L'idea di lasciare la maggior parte delle canzoni in uno stato larvale era già operativa dai tempi del disco bianco: qui, semplicemente, tutto è compresso perché c'è meno spazio, c'è meno tempo, c'è una sensazione di fine imminente a cui McCartney cerca persino di dare un'espressione musicale, e la sua idea è di chiudere con una gara di assoli. Poi, alla fine di un primo missaggio spunta, dopo qualche secondo di silenzio, quel che resta di un aborto di canzone - trenta secondi in cui Paul esprime il proposito di farsi Sua Maestà - e Paul decide di includere anche quei trenta secondi. I Beatles finiscono così, con uno scherzo. Lennon avrebbe voluto finire con un taglio netto alla fine dell'incedere funebre di I Want You. Phil Spector opterà, l'anno seguente, per la più ottimistica Get Back. Ma Her Majesty è forse il finale più sensato: qualcosa di buttato lì in fretta, che comunque piacerà a milioni di persone - tra cui il sottoscritto - da parte di un gruppo che ormai incideva nell'inconscio collettivo anche soltanto attraversando una strada. Come fecero in un giorno d'agosto di esattamente 45 anni fa.

Quella notte, Charles Manson e i suoi accoliti si introducono nella villa di Roman Polanski e accoltellano Sharon Tate, al nono mese di gravidanza, e quattro amici che le tenevano compagnia. Manson dirà di aver ricevuto istruzioni dai Beatles, attraverso Helter Skelter.

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