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martedì 30 maggio 2017

L'uomo che si spogliò per rivestirci

Citizenfour (Laura Poitras, 2014; Oscar al miglior documentario).


Quando dopo un quarto d'ora di film improvvisamente compare - sulla poltrona di quell'anonima stanza d'albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti - non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un'icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all'inizio nicchia: non vorrebbe attirare l'attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell'enorme significato che quell'enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l'obiettivo su di lui.


Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l'eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l'approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell'anonima stanza d'albergo che è diventata da un momento all'altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall'anonimato viene assunto nell'empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)


Tutto questo succede unicamente perché lui l'ha voluto: e mentre succede Snowden è nervoso, rassegnato, stanco, perplesso, spaventato, euforico. Comunica meglio dei giornalisti che lo intervistano, sembra aver passato la vita al microfono più che davanti a un terminale: quasi più sciolto di Gordon-Levitt che lo interpretava nel film di Oliver Stone. Aveva previsto tutto, tranne forse che gli sospendessero il mutuo sulla casa. Snowden conserva ricordi (idealizzati) di un tempo in cui la Rete era libera davvero, i bambini anonimi dialogavano con gli scienziati e a nessuno veniva in mente di autocensurarsi mentre usava un motore di ricerca. Per regalarci una speranza di riottenere quell'innocenza, quell'anonimato, Snowden deve spogliarsi davanti alla Poitras (la quale invece esclude la sua immagine dal quadro). L'ultima scena, in cui da una ripresa esterna si intravede l'immagine sgranata della sua compagna che lo ha finalmente raggiunto a Mosca, e sta assaggiando la pasta in cucina, è voyerismo puro, temo inconsapevole: Citizenfour, la storia di come la privacy di ognuno di noi sia a rischio, finisce con una ripresa da paparazzo. Citizenfour si rivede a Bra mercoledì 31 maggio in occasione della rassegna Cinema e valori 2017.

venerdì 26 maggio 2017

Pat Dylan e Bobby the Kid

Pat Garrett and Billy the Kid (1973; colonna sonora originale dell'omonimo film)

(Il disco precedente: Greatest Hits II.
Il disco successivo... si dimentica facilmente).

Oltre il fiume spareranno a vista:
lo sceriffo è già sulla tua pista.
I bounty killer ti hanno sulla lista.
Non gli gusta la tua libertà.

È un film imbottito di scene madri, ma la più famosa non è stata girata: nel buio della sala di proiezione, mentre guarda i giornalieri, il grande Sam Peckinpah, (ubriaco, una pistola carica in tasca), si rende conto che una lente è difettosa, che il lavoro di un'altra giornata va sbattuto via. Furioso, si alza, si sbottona e lascia sul telo dello schermo il suo segno - una "S" di urina. Dietro di lui, Bob Dylan si volta verso Kris Kristofferson: non dice niente, ma quello sguardo Kristofferson non lo dimentica più. Kris, ma in che pasticcio mi hai portato?

Passi notti intere, giù in Berenda,
a smazzare carte in un'hacienda,
finché trovi uno che ti stenda,
Billy, se hai bisogno, sono qua.

Un pasticcio che non si sarebbe perso per niente al mondo. Un film sul più famoso fuorilegge del west. Girato dal regista del Mucchio Selvaggio. Nei panni del protagonista l'amico Kristofferson, quel bel cantante country che qualche anno prima aveva retto i bonghi durante la registrazione di Lay Lady Lay. Talmente ghiotta era l'occasione di recitare e scrivere una colonna sonora western, che Dylan, per una volta nella sua vita, si presentò coi compiti fatti. Peckinpah, per dirla con Kristofferson, "non s'intendeva molto di musica", insomma non aveva la minima idea di chi fosse quel trentenne ricciolino che Kristofferson gli stava presentando. Ma il tizio aveva già Billy in canna. Gliela fece sentire. Scritturato. A Billy non si resiste.


Fai la festa a qualche señorita,
nell'ombra di una camera ti invita,
nel buio solitario lei ti guida...
Billy, a casa non ci torni più.

Voi fischiettate ogni tanto? Se vi capita, e se amate Dylan, ci siamo già capiti. Billy è l'abc, il pezzo dylaniano più fischiettabile. Si può andare avanti per giorni interi, e per milioni di variazioni sullo stesso tema triste. "Billy, you're so far away from home". Che ti è successo, Billy? Quale ingiustizia, quale imprudenza, ti ha portato così lontano? Quando i redattori di Mojo stilarono la classifica delle cento canzoni di Dylan, si scordarono di Billy. Sarà gente che non fischietta. Forse è un dono di natura, c'è chi ci nasce e c'è chi per capire Dylan è costretto a cercare barlumi di genio in dozzine di dischi opachi, quando basterebbe saper fischiettare Billy. Una delle melodie più semplici che abbia usato: una di quelle canzoni per cui vale la pena citare Robertson a proposito delle canzoni della Cantina: "non si capiva se fossero sue o no".

Nessuno, che io sappia, contesta a Dylan la paternità della melodia di Billy. Allo stesso tempo, è così basica che sarebbe veramente strano se l'avesse scoperta proprio lui. La incide in tre versioni diverse, come se non sapesse come riempire il disco (e invece parecchio materiale restò fuori). La maneggia come se fosse un interprete, anzi tre interpreti diversi: come se non fosse sua, ma un brano tradizionale che si può leggere in tanti modi e stravolgere a piacere. Come se la stesse cercando, per tentativi: è in cerca di Billy, come in Self Portrait era in cerca di Little Sadie. Se quel disco era l'autoritratto di un cantautore attraverso cover di altri artisti, Pat Garrett è il disco meno personale di Dylan (il primo che non ha la sua faccia in copertina), malgrado non ci sia una nota, una sola parola che non abbia scritto lui.

C'è chi prende mira dietro a specchi,
fori di pallottola sui tetti,
se non muori presto o tardi, invecchi:
Billy, sei rimasto solo tu.

Oggi Billy sembra fatta apposta per un western - il tema ideale qualsiasi panoramica in cui su un tramonto si stagli il profilo di un cowboy dal destino segnato - ma è un errore di prospettiva: prima di Billy le canzoni del film western erano diverse. Le scrivevano i migliori compositori sul mercato. Liberty Valance è di Bacharach (ha anche scritto Rain Keeps Falling On My Head per Butch Cassidy, ma non credo che si possa considerare un brano western). Ci mettevano un sacco di stilemi riconoscibili a colpo sicuro - chitarre country, violini, voci virili, qualche messicanismo - e ritornelli orecchiabili. Dylan i violini ce li ha, di chitarre quante ne vuoi (c'è Roger McGuinn alla 12corde, è la prima volta che incidono assieme); per la voce virile può fare un tentativo, ma Billy è tutta un'altra idea del west. Più elegiaca, più minimale. Può piacere o non piacere, ma finalmente è un'idea - da quand'è che non gliene veniva una?

Billy è il punto di arrivo di un sentiero accidentato che partiva dal 1967, dalla Cantina e da John Wesley Harding - un percorso ascetico, a ben vedere. Via il ritornello, via gli orpelli inutili: un tema solo, insistente come il blues, e in grado di sopportare centinaia di strofe. Quel tipo di ballate che secondo lui una volta la gente ascoltava per ore e ore, prima dell'avvento della radio e del cinema. Billy è già a suo modo un film. La storia che racconta non è molto più oscura ed episodica del copione che Peckinpah si era riscritto. C'è un bandito che dovrebbe fuggire, e invece gira in tondo. C'è uno sceriffo che (spoiler) lo ucciderà, ma un tempo era un suo amico. Le strofe che seguono non sono che variazioni sul tema del conflitto a fuoco. Due canaglie giocano a nascondino in una prateria senza senso, chi non è sceriffo è ladro di bestiame. Entri in saloon da assassino, ne esci con la stella di latta sul petto. In che pasticcio mi hai portato, amico?

Dormi con un occhio mezzo aperto
se con Garrett hai quel conto aperto.
Ogni suono è il La per il concerto
che la sua pistola suonerà.

In che pasticcio mi hai portato, Kris? Mettetevi nei panni di Bob Dylan, per una volta. Ce l'ha fatta: finalmente è sul carrozzone di Hollywood. Gente seria, valori solidi, mica quella bolla di sapone che è il mondo musicale, schiavo dei capricci di ascoltatori teen-ager e critici ventenni. Qui c'è gente che ha fatto la guerra, gente che ha già il suo nome scolpito sul marmo della Storia, James Coburn con tutte le sue meravigliose rughe (non le fanno più delle facce così), e Sam Peckinpah. Questo è il mondo degli adulti: Coburn e Peckinpah. Insieme per lavorare a qualcosa che andrebbe a vedere anche Abram Zimmerman, se fosse ancora al mondo - e sui titoli avrebbe visto il nome finto di suo figlio accanto a quello di quei grandi. Ce l'hai fatta, Robert "Bob Dylan" Zimmerman. Non sei più il ridicolo 'portavoce' di un evanescente 'generazione'. Sei un musicista dal talento riconosciuto e un caratterista di buon livello. Sennonché.

Sennonché siamo nel 1973, e anche il mondo degli adulti sta andato a puttane. Il grande Sam Peckinpah è un alcolizzato furioso che tutte le notti spara alla sua immagine nello specchio. Litiga coi produttori, litiga coi collaboratori, col cast, prima o poi se la prenderà anche con Dylan. Il copione è un casino, sul set a Durango gira di tutto, compreso il virus dell'influenza. Perderanno un sacco di tempo, e alla fine il regista abbandonerà il film al suo destino. Montato alla benemeglio, stroncato anche dai fan di Peckinpah, il disastro eclisserà il valore della colonna sonora - sapete chi ha vinto l'Oscar alla migliore canzone del 1973? Barbra Streisand, The Way We Were. Ora non dico che Billy avrebbe avuto una chance (in lizza c'erano anche Jesus Christ Superstar Live and Let Die, fu un anno durissimo), ma Knockin' on Heaven's Door non si meritava una nomination? Il fatto è che per qualche tempo nessuno si accorse che per quel film sfortunato Dylan aveva scritto uno o due capolavori.


Viene il sospetto che il vecchio Sam avesse capito prima di tutti, e meglio di tutti... (continua sul Post).

lunedì 22 maggio 2017

Black is the New Barbablù

Scappa (Get Out, Jordan Peele, 2017)


Indovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?

Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima.

















Certo, dalla sua Jordan Peele aveva anche la tematica-di-scottante-attualità: la questione razziale in America, il movimento Black Lives Matter, la fine dell'era Obama e il modo in cui anche il razzismo sta cambiando (evolvendo, per così dire), adattandosi alla postmodernità e scavandosi nuove nicchie. In questo senso forse Get Out è meno a fuoco di quanto molti hanno voluto credere. Non per imperizia di chi lo ha scritto, diretto e recitato, ma proprio perché non vuole essere un manifesto, ma soprattutto un film: anzi un film di genere, orgogliosamente di serie B, con una storia semplice e intagliata nell'antico legno delle fiabe. È un film che attinge da immagini banali e fortissime (un bicchiere di latte, un trofeo di caccia), da un brodo di emozioni vere e presenti (l'imbarazzo di sentirsi nero alle feste: non necessariamente disprezzato; anzi a volte persino ammirato, ma sempre e comunque etichettato, categorizzato, pesato e prezzato), e non disdegna una di quelle belle catarsi sanguinolenti che solo il cinema di genere può permettersi di servire.


Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).

sabato 20 maggio 2017

Il disco più venduto e la canzone più nascosta

Bob Dylan's Greatest Hits Vol. II (1971)
Il disco precedente: Another Self Portrait.
Il disco successivo: Pat Garrett & Billy the Kid

Watching_the_River_Flow_Dylan
Sto notando come l'estetica dei 45 giri sia molto diversa da quella dei 33: più effimera, dozzinale (foto scadenti, font pacchiani), forse più genuina. I 33 giri vanno sui libri di storia, i 45 sono polaroid imbarazzanti che rimettono in discussione la memoria consolidata.
Cosa c'è che non va con me? È che non ho molto da dire.
Dev'essere arrivata come una progressiva illuminazione: a un certo punto del tardo 1970 Dylan si rese conto che nessuno lo costringeva più a scrivere o incidere canzoni, se proprio non ne aveva voglia. Fu l'uovo di Colombo. Così, dopo sei mesi trascorsi a registrare due dischi di canzoni insoddisfacenti, sue e di altri, Dylan finalmente accettò che non aveva molto da dire e che tutto sommato andava bene così. Una volta accettata, era un'idea talmente forte che... ci scrisse una canzone e la incise come singolo. Non è sorprendente che Watching the River Flow fosse un blues. Dylan ha questa arma segreta nel cassetto: quando non sa cos'altro fare, può sempre fare un blues ed essere abbastanza tranquillo del risultato perché anche se di solito è occupato in altre cose, a tempo perso è uno dei più grandi bluesman viventi. Watching non sarebbe niente di speciale, se non fosse il primo brano di Dylan prodotto a New York da Leon Russell, il pianista dall'Oklahoma che aveva già reso credibile in America il r'n'b inglese di Joe Cocker. Con tutto questo, rimane un pezzo fresco ma trascurabile, come la telefonata a un amico che non ha niente da dirti ma vuole farti sapere che va tutto bene: nulla di memorabile, ma fa piacere ascoltarla. Una telefonata del genere, nel '71 sembrava a ancora in qualche modo necessaria. La gente continuava a chiedersi: ma come sta BD? Perché non fa concerti? Perché non rilascia interviste?

Leon Russell (wikipedia).
Leon Russell, nel '70, capisci che poteva rubare la scena a Joe Cocker (wikipedia).
Già, perché? Perché non aveva niente da dire. A New York, dove si era ritrasferito con la famiglia sperando di passare inosservato come una rockstar tra tante, riusci a stanarlo solo Weberman, il "dylanologo", uno stalker che rovistava nei suoi rifiuti e che lo accusava a turno di antisemitismo e filosionismo; in estate una giornalista israeliana riuscì a scovarlo sulla spiaggia a Tel Aviv e a essere trattata con insolita gentilezza: ma anche con lei Dylan non poteva che restare sul vago. Prendeva il sole, badava ai figli, riorganizzava i suoi affari (le cause con Grossman si sarebbero trascinate ancora per anni), un giorno sarebbe senz'altro tornato a incidere e fare concerti, ma quando? Chissà.
Poi, un mattino d'autunno, si svegliò in lacrime: cos'era successo? "Hanno sparato a un uomo a cui volevo davvero bene. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson. Signore, Signore, lo hanno steso a terra".

Angela Davis
Angela Davis non c'entra quasi niente con questa storia. Passò qualche guaio perché le armi usate da Jonathan Jackson per il sequestro erano registrate a suo nome. Esistono foto pazzesche di Jackson che tiene il giudice per il collo, ma non sono di dominio pubblico.
George Jackson era del '41, come Dylan, come Ritchie Valens, come David Crosby e altri personaggi con i quali Dylan in Chronicles suggerisce di trovarsi in particolare sintonia. Dylan compié trent'anni in maggio; Jackson li avrebbe fatti a settembre ma una guardia carceraria gli sparò un mese prima. Nell'anno in cui Dylan era arrivato da Minneapolis a NY, George Jackson era entrato nel penitenziario di San Quentin, per una rapina a mano armata a un benzinaio (70 dollari di bottino). Ne era uscito soltanto nove anni dopo, e soltanto per essere trasferito nel carcere di Soledad, California. Nel frattempo si era radicalizzato, aveva studiato Marx, Engels, Mao, aderito alle Pantere Nere, tentato uno sciopero della fame con due compagni (i "fratelli di Soledad"), vendicato un eccidio di prigionieri partecipando all'assassinio di una guardia carceraria, e ora era in attesa di giudizio per quest'ultimo crimine, con l'alta probabilità di essere giustiziato in una camera a gas. All'inizio di agosto suo fratello diciassettenne, Jonathan (guardia del corpo di Angela Davis), aveva provato a liberarlo, a modo suo: irrompendo in un tribunale e prendendo in ostaggio tre giurati e un giudice - a quest'ultimo aveva fissato al collo una mitraglietta col nastro adesivo. Appena cercò di uscire lo freddarono, e morì anche il giudice. Due settimane più tardi, dopo un colloquio con il suo avvocato, George Jackson si sfilava una pistola da una parrucca e tentava la sua ultima fuga da Soledad. E in novembre Dylan pubblicò George Jackson. Dopo aver protestato per un anno la sua mancanza di idee, decise di confessare il suo amore, proprio così, dice "amore", per un galeotto maoista che aveva gettato il corpo di una guardia dalla finestra. "Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, non si sarebbe mai messo in ginocchio. Le autorità lo odiavano perché era troppo vero. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson".

attica
Il carcere di Attica
Più di un biografo ha presentato George Jackson - il singolo - come una mossa istintiva, dettata dall'emozione: Dylan non voleva certo tornare alla musica di protesta, ma un mattino si è svegliato in lacrime e l'ha scritta e registrata in tutta fretta. Niente calcoli, solo sentimenti. Il calendario ci dice un'altra cosa: tra fine agosto e metà novembre Dylan ha avuto tutto il tempo per riflettere su quel che stava facendo. Sapeva che George Jackson non era il solito mitico fuorilegge delle ballate, ma un criminale morto di fresco che ancora terrorizzava i benpensanti, l'eroe dei Weathermen, i bombaroli che avevano preso il nome dal verso della sua Subterranean Homesick Blues. Sapeva che la morte di Jackson era stata una delle scintille della strage di Attica, un penitenziario sulla costa opposta degli USA dove Pantere Nere e Musulmani Neri avevano organizzato una delle rivolte carcerarie più famose della storia, soffocata nel sangue. Sapeva tutto questo e la incise lo stesso - dopo aver corteggiato il pubblico conservatore del Johnny Cash Show e aver messo in giro voci su una sua possibile conversione all'ebraismo chassidico, scrisse un'elegia per un rivoluzionario maoista che aveva ucciso una guardia e aveva usato le sue ultime parole per citare Ho Chi Minh: "Signori, il dragone è arrivato".

11. The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
In seguito forse se ne pentì: non risultano esecuzioni live di George Jackson, e la canzone, nella sua versione "big band" (quella sul lato A del 45 giri) è una delle sue poche irreperibili su Spotify. Era stata ristampata in una raccolta degli anni Ottanta che è stata ritirata anche dal catalogo di iTunes. Su Spotify resiste invece la versione acustica - il lato B, in sostanza la prova per sola chitarra e armonica - che resta comunque una gran bella canzone. Per qualche motivo, Dylan preferirebbe che la riascoltassimo soltanto così. Senz'altro, se il valore di Jackson risiedeva nell'essere "vero", la versione acustica è la più adeguata, la più "vera", più facilmente interpretabile come lo sfogo di un momento - una cosa registrata ancora con le lacrime agli occhi - e non un'operazione condotta a tavolino, un singolo ispirato a un fatto di cronaca e registrato con fior di musicisti invitati per l'occasione. Dylan può convivere con molti suoi errori del passato, ma forse non col sospetto di avere speculato su una tragedia più grande di lui.
Le guardie lo maledicevano, osservandolo dall'alto: ma erano terrorizzati dal suo potere, spaventati dal suo amore. Oh, Signore, hanno fatto secco George Jackson...
gh2Nei fatti il singolo non uscì 'a caldo', ma a distanza di mesi, e in concomitanza con uno dei colpi commerciali più fortunati della carriera di Dylan: il secondo volume (doppio) di Greatest Hits, a sua volta pubblicato sull'onda del successo del doppio concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden. Greatest Hits II uscì più o meno quando il film del concerto arrivava nelle sale: un ottimo sistema per tenere buoni i dirigenti della Columbia che senza un disco di Dylan sugli scaffali ogni dieci mesi evidentemente smaniavano. In seguito qualche biografo ha definito il biennio '71/'72 come gli "anni persi" di Dylan - mi domando quale musicista oggi non amerebbe "perdere" due anni a incidere When I Paint My Masterpiece George Brown e a comporre (nel '72) Knockin' on Heaven's DoorBilly Forever Young. Tutta roba che Dylan ha scritto in un periodo in cui era convinto di soffrire di una crisi creativa.

the concert for bangla desh
La copertina più triste di sempre?
In seguito ci capiterà di ripensare con nostalgia a una "crisi" del genere. Ne avesse avute altre due o tre, e ci ritroveremmo con quattro o cinque dischi in meno e una dozzina di capolavori in più. Nel 1971 non aveva affatto smesso di scrivere ottime canzoni: semplicemente aveva smesso di scriverne di inutili. Ed era ancora in grado di fare ottimi concerti, se solo ne avesse avuto voglia. Quello per il Bangladesh è commovente: il trionfo di due rockstar loro malgrado - Harrison e Dylan, una più introversa dell'altra. Pare fossero entrambi terrorizzati. Per una serie di circostanze indipendenti dalla loro volontà - Lennon e McCartney non si parlavano, i Rolling Stones erano fuggiti in Francia per problemi fiscali, Eric Clapton si stava disintossicando - questi due divi recalcitranti erano diventati il punto di riferimento di tutta la scena. Non fosse stato per il Bangladesh, avrebbero disertato pure loro. Ma George Harrison non poteva dire di no a Ravi Shankar che raccoglieva fondi per la sua gente travolta dall'alluvione, e Dylan non disse di no a Harrison - non disse neanche di sì, fino all'ultimo momento. Sulla scaletta che Harrison aveva attaccato con lo scotch al retro della chitarra, a un certo punto c'era scritto, semplicemente: "BOB?" Non fu sicuro finché non lo vide salire sul palco e imbracciare una chitarra. Tremava. Harrison, Ringo Starr (tamburello) e Leon Russell (a basso) gli diedero una mano in A Hard Rain's A-Gonna FallBlowin' in the WindIt Takes a Lot to LaughLove Minus Zero Just Like a Woman. La gente tornò a casa pensando: ho visto Dylan suonare con metà dei Beatles. Qualcuno senz'altro sarà rimasto deluso lo stesso, qualcuno scommetteva di vedere una reunion dei Beatles a sorpresa. La foto di copertina di Greatest Hits II è presa dal concerto.

Forse è il caso di tranquillizzare i lettori... (Continua sul Post)

martedì 16 maggio 2017

L'ingloriosa caduta dell'Excaliburino

King Arthur, il potere della spada (Guy Ritchie, 2017) 


A Camelot qualcosa non va, la tavola rotonda è in fermento: da indiscrezioni sembra che qualche Valoroso Cavaliere sia scappato con la cassa. Il valoroso sir Ritchie non si trova, nelle sue stanze il re Artù si tormenta: è colpa sua. Non doveva dar retta a quella banda di disperati, pur riunita sotto lo stemma di un nobile blasone, la Compagnia dei Fratelli Warner. Ma loro si erano fatti avanti con suadenti lingue biforcute... una saga in sei film promettevano, sei film! Roba da Guerre Stellari, come dire di no? Finalmente la fama di Excalibur avrebbe raggiunto i quattro angoli del mondo, rivaleggiando con quella dei supereroi e dei robottoni componibili. E mentre già volava con l'immaginazione, mentre già visualizzava il suo pupazzetto barbuto spuntare da un happy meal sudcoreano, il nobile Artù forse non si accorgeva che gli stavano rubando l'anima?

"Che avete detto? Devo passare la giovinezza in un bordello? Ma non ero un maniscalco?"
"Maestà, abbia pazienza, è per attualizzare il personaggio".
"Ah perché i bordelli sono attuali?"
"Ehm".
"Cioè io ogni tanto ci vado al cinema, nei blockbuster di adesso vedo un sacco di donne guerriere, qui c'è solo qualche strega repellente e un po' di prostitute di contorno, tutta questa attualità, scusate..."
"Àstrid Bergès-Frisbey dà comunque vita a un personaggio femminile cool e non scontato, ammetterà..."
"Potrei anche ammetterlo, ma... neanche un bacetto, niente... poi a un certo punto la rapiscono, e mi potrebbe anche stare bene, la Damigella in Pericolo è proprio materia bretone, l'abbiamo inventata noi, praticamente".
"Perfetto, maestà".
"Poi però nella scena d'azione successiva serve un deus ex machina e quindi la liberano. Il malvagio re Vortigern la libera senza un plissé. Aveva chiesto in cambio Artù, e invece la libera prima che arrivi Artù. Ora io di buchi narrativi un po' me ne intendo, e questo..."
"La liberano perché gli hanno promesso che Artù sta arrivando!"


"Dunque io Vortigern me lo ricordo, e così imbecille proprio no. Ha in ostaggio una maga e un bambino e libera la maga. Ma chi ha scritto questo copione, si può sapere?"
"I nostri migliori artigiani, maestà"
"Ovvero?"
"Ehm... Joby Harold".
"Ovvero?"
"Sta lavorando alla nostra versione di Flash e di Robin Hood".
"Sta lavorando. Ma un film intero lo ha già scritto?"
"Certo, ehm, Awake..."
"Mai visto".
"Un buon successo del... del... 2007".
"E poi non ne ha più scritti?"
"Ha fatto altro, e proprio per questo gli abbiamo affiancato un altro valentissimo professionista e coproduttore, Lionel Wigram".
"Ovvero?"
"Ehm..."
"L'avrà mai scritto un film questo qui".
"The... The Man from UNKLE".
"Ma ha floppato!"
"No, non ha floppato, no... diciamo che non ha raggiunto i risultati previsti. Ma mica per colpa sua, lo script era buono".
"È stato più un problema di regia, dice?"
"Ehm...."
"Mi aiuti a ricordare, io faccio il re nella materia bretone non è che mi intendo così tanto... chi stava dietro la macchina da presa quando avete prodotto The Man from UNKLE?"
"Guy Ritchie".
"Signori, aiutate un povero monarca altomedievale a capire... volete fare una saga sulla materia bretone in sei episodi, solo per il primo quanto avete intenzione di spendere?
"175 milioni di dollari".
"È una cifra spaventosa, epperò... si tratta di rivaleggiare coi draghi dello Hobbit, immagino..."
"No, veramente niente draghi per ora".
"Come niente draghi?"
"Dopo lo Hobbit pensavamo appunto di cambiare un po', pensavamo a degli elefanti".
"Elefanti? Ma io sono re Artù".
"Elefanti enormi!" (continua su +eventi!)


"Sentite, io sono un po' fuori dal giro grosso... l'ultimo con cui ho lavorato è stato De Laurentiis, lui aveva in mente queste cose un po' fantastoriche... è andata com'è andata. Diciamo che la fantarcheologia ha fatto il suo tempo. Ma voi mi state dicendo che intendete buttare quasi duecento milioni di dollari in un film su di me scritto da due novellini, senza un personaggio femminile forte, senza attori di prima linea (la cosa più importante che ha fatto il mio interprete al cinema è Pacific Rim) senza draghi e con gli elefanti. Confesso una certa perplessità".
"Ma c'è Guy Ritchie! Ha visto cos'ha fatto Guy Ritchie con Sherlock Holmes?"




"Sentite. Ci è piaciuto immensamente lo Sherlock Holmes di sir Ritchie, ma il trucco che ha funzionato con la Londra dell'Ottocento - chiamiamolo choc anacronistico, un blockbuster d'azione in costume - non necessariamente funzionerà con Camelot. Primo perché Sir Robert Downey il Giovane non è più della partita - e anche Sir Jude il Bello soffre l'ingiuria del tempo; secondo, perché un buon trucco non funziona che una volta, al massimo due; terzo, perché Camelot è qualcosa di molto diverso, è un mondo di oscurità e misteri, e sir Ritchie e i suoi scrittorucoli questa cosa non l'hanno capita. È gente nata e cresciuta in città, non capiscono che esistano altri mondi, ficcano nel quinto secolo una Londinum metropolitana che neanche nel Milletré era grossa così, ma ammettiamo pure che ai paggi e alle pulzelle che affollano i multisala tutto questo non interessi. Siete convinti che si interesseranno comunque ai vecchi sortilegi di sir Ritchie? Quegli stacchi violenti, quei montaggi diegetici, quelle zummate improvvise, quei dialoghi esagerati da fumetto, così anni Novanta del Ventesimo Secolo..."
"È quel che piace ai giovani, maestà!"
"Non credo. Temo che sia quello che piaceva a voi quando eravate giovani. Ma i blockbuster di adesso non si fanno più così, c'è tutta un'arte che altre compagnie hanno interiorizzato, e voi no. Andate di selva narrativa in selva narrativa, cercando materiale quale che sia da sfruttare commercialmente, imponendo le vostre saghe raffazzonate alla benemeglio con la pura forza bruta del vostro nobile Stemma e del battage pubblicitario... non so se dovrei fidarmi di voi. Certo, la vostra proposta è allettante".
"Sei film in dieci anni, Maestà..."
"Ma rischio di perdere l'anima".
"Pupazzetti della tavola rotonda in tutti gli Happy Meal".
"Oh, va bene, dopotutto sono sopravvissuto anche a De Laurentiis e Valerio Massimo Manfredi, cosa ho da perdere? Portatemi il sigillo reale".

Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Lo scrivevo l'estate scorsa,  di fronte a quell'empia catastrofe che fu Suicide Squad. Non è che ci credessi davvero, ero solo scandalizzato da un film. Ma ora che King Arthur è sotto di centotrenta milioni di dollari, comincio a domandarmi se per caso ci avessi azzeccato: se la WB non abbia dichiarato guerra ai blockbuster e se non sia tempo di decidere da che parte stare. Nel frattempo, chi è curioso può trovare King Arthur al Cinelandia Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30).

venerdì 12 maggio 2017

Altri autoritratti

Another Self Portrait (1969–1971) (The Bootleg Series Vol. 10, 2013).
(Il disco precedente: New Morning
Il disco successivo: Greatest Hits II).
Another Self Portrait"Come sarebbe a dire, un'altra merda?"
Ho cominciato a dedicare un pezzo a ogni disco di Dylan nel dicembre dell'anno scorso. Ne ho scritto uno alla settimana; siamo in maggio e stiamo finalmente uscendo dagli anni '60 (il 1970 tecnicamente fa parte degli anni '60, lo so, non ha senso). Se non mi ammalo, se non mi promuovono a un ruolo di più grandi e onerose responsabilità, se non mi stanco, se al Post non mi chiudono l'account (nel caso, come biasimarli), se continuo a scrivere un pezzo alla settimana, a Natale dovrebbe uscire la recensione di Christmas in the Heart. Non è un bell'obiettivo? Sarà bellissimo, un quell'ovattata atmosfera scampanellante, scrivere due cazzate su Christmas in the Heart. Invece adesso è maggio e bisogna scrivere un pezzo su Another Self Portrait. Conoscete qualcuno che abbia ascoltato tutto Another Self Portrait?
Che fretta hai? Guarda un po' qui,questo è il numero che non ti devi perdere.Annie canterà la sua canzone, si chiama Take Me Back Again
(L'ha scritta Tom Paxton, il primo folksinger del Village che cominciò a scriversi le canzoni da solo, qualche mese prima che ci arrivasse Bob Dylan. È ancora in attività).
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Del Dylan pittore non m'intendo molto, ma la sua copertina per Another Self Portrait è molto significativa (forse è la cosa migliore di tutto il cofanetto). L'autoritratto su sfondo nero assomiglia a Dylan ma non assomiglia a nessun altra foto o ritratto di Dylan. Richiama irresistibilmente quello che un Dylan molto più giovane e goffo sbozzò sulla copertina di Self Portrait nel 1970. È come se il Dylan più anziano ed esperto abbia rimesso mano alla stessa tela, miracolosamente ancora fresca di pittura, e l'abbia rimaneggiata fino a trasformarla in quell'autoritratto che 40 anni prima era venuto un po' troppo naif e pasticciato. Col nuovo ritratto insomma Dylan ci dice che (1) ha finalmente imparato a dipingere; (2) nel 1970, più che provocatorio, era incapace, e 40 anni dopo sente ancora il desiderio di correggersi; (3) i ricordi non si congelano in canzoni o fotografie; i ricordi sono pittura sempre fresca, che in qualsiasi momento si può rimescolare, per errore o per nostra volontà. Quello che Dylan fa al suo ritratto, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno ai nostri ricordi. Cambiamo ogni cosa che ricordiamo: rendiamo i noi stessi di venti, di trent'anni fa, più simili a noi di quanto non fossero davvero. Di loro vediamo soltanto quello che preferiamo vedere, quello che ci aiuta a capire o spiegare chi siamo noi adesso. Chi conserva diari o foto conosce il fenomeno: la persona che ricordiamo è molto diversa da quella che risulta dai suoi scritti e sulla pellicola. Dylan ha i suoi ricordi - e li modifica continuamente - ma ha anche una quarantina di dischi che non credo riascolti spesso. Gli devono dare la stessa nausea che una volta ci dava la nostra voce registrata. Molto spesso quando ne parla li confonde, si capisce che li conosce meno dei suoi intervistatori.
chronicles IPer esempio: nel capitolo di Chronicles I dedicato a New Morning, mentre racconta dell'ansia e della paranoia indotta dagli hippy che lo venivano a cercare a Woodstock salendogli sul tetto o intrufolandosi in camera da letto, Dylan racconta una serie di espedienti che avrebbe consapevolmente adoperato per disperderli. Il primo che gli viene in mente (e che non risulta, mi pare, in altre biografie) fu "versarmi una bottiglia di whisky sulla testa, entrare in un grande magazzino e guardarmi in giro con gli occhi sbarrati da ubriaco, sapendo che tutti si sarebbero messi a parlare tra loro non appena me ne fossi andato". Fingersi sbronzo era una vecchia tattica che usava già negli anni del Village. Quanto al secondo espediente: "Andai a Gerusalemme e mi feci fotografare al Muro del Pianto con uno zucchetto in testa. La fotografia fu trasmessa istantaneamente in tutto il mondo e i giornali scandalistici mi trasformarono subito in un sionista. Questo mi aiutò un poco". E questo è tutto quello che Dylan avrebbe da dire sul suo primo riavvicinamento all'ebraismo - eppure il biografo Howard Sounes sostiene che in quegli anni stava meditando di aderire al chassidismo, forse di trasferirsi in Israele (in un kibbutz, scrive: magari fu un'altra cosa che lasciò detta in giro per scherzo).
In Chronicles qualsiasi conversione è rinnegata, indossare una kippah è come rovesciarsi whisky addosso, un camuffamento, un ingaglioffimento. Anche incidere certi dischi ha lo stesso senso: "Di ritorno, registrai un disco che aveva l'apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa. [...] Dagli articoli che uscivano su di me risultava che stavo cercando me stesso, che ero entrato in un processo di ricerca spirituale, che soffrivo di tormenti interiori. A me andava tutto bene. Feci uscire un disco (un doppio) dove non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello".
Dunque. Il disco doppio è senz'altro Self Portrait, di cui Dylan ribadisce la natura di gesto provocatorio ("tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano") ma anche la consistenza, per così dire, escrementizia: le canzoni che vengono scelte per il disco sono quelle che restano attaccate. Metafora meravigliosa: una delle qualità delle canzoni è appunto il modo in cui si attaccano e non riesci più a dimenticarle. Non ha niente a che vedere con l'estetica, ci sono canzoni belle che non si attaccano e canzoni brutte che non si staccano più. Anzi se c'è correlazione forse è inversa: più sono brutte più sono catchy, appiccicose. Pensate a Wigwam, o a Belle Isle.
Bob_Dylan_-_Dylan_(1973_album)Ma se l'originale Self Portrait è la raccolta delle canzoni che sono rimaste attaccate al muro, qual è il disco che raccoglie "il resto che non ci era rimasto attaccato"? L'ipotesi più ovvia è che stia parlando del famigerato Dylan, il disco che raccoglieva, appunto, scarti di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Salvo che uscì soltanto nel 1973, e Dylan sta raccontando dei suoi problemi intorno al 1970. Non solo, ma qui nella foga di ridisegnarsi il passato su misura, Dylan si attribuisce addirittura la responsabilità di aver pubblicato l'orrido disco del 1973, di essere andato lui in persona "a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato". Sappiamo che le cose non possono essere andate così: la Columbia pubblicò Dylan nel breve periodo in cui l'artista era passato alla AsylumE quando tornò all'ovile, Dylan si oppose in tutti modi alla ristampa del disco. Negli ultimi anni tuttavia si è rassegnato a inserirlo nel catalogo. In compenso quello che scriveva dell'orrido Dylan si può applicare ad Another Self Portrait, uscito solo nel 2013, che raccoglie in un grazioso cofanetto le prove di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Qualcuno, evidentemente, ne sentiva la necessità. O se preferite: nel 1970 aveva inciso le cose rimaste appiccicate al muro; nel 1973 quelle che erano cadute sul pavimento, e nel 2013 ha raschiato parete e pavimento per regalare ai suoi fan Another Self Portrait.
E i fan, indovinate? Ringraziano.
E i critici? (Continua sul Post)

lunedì 8 maggio 2017

Gold, il grande spoiler

Gold - la grande truffa (Gold, Stephen Gaghan, 2017).


Per quanti anni l'ho cercato. Ormai avevo perso le speranze, quando mi arrivò una dritta: nella suite di un grande hotel della capitale sopravviveva a sé stesso uno degli ultimi Titolisti del Cinema Italiano. Aspettava che qualcuno salisse ad ammazzarlo o scendesse a pagargli il conto. Entrambe le cose erano al di fuori della mia portata, ma provai ugualmente a salire con una bottiglia di scotch. Si sciolse subito. In fondo moriva dalla voglia di raccontare, di difendersi.

"Quando ha capito che voleva fare il Titolista?"
"Non c'è stato un momento preciso... ho sempre saputo che l'avrei fatto, lo faceva mio padre, e il padre di mio padre, il cinema italiano è così".
"Anche suo padre cambiava i titoli dei film stranieri?"
"È stato uno dei più grandi. Ha presente Non drammatizziamo... è solo questione di corna?"
"Domicile conjugale, di François Truffaut".
"Ahah, sì".
"È stato suo padre a cercare di far passare un film di Truffaut per una commedia sexy con Lando Buzzanca?"
"Ci siamo comprati un'Alfa Giulia con quel titolo".
"Lei invece è quello che ha tradotto Eternal Sunshine of the Spotless Mind con..."
"No, non sono io quello..."
"Se mi lasci ti cancello".
"...purtroppo. Che invidia. Grandissimo titolo".
"Crede che in qualche modo abbia giovato alla fruizione del film?"
"Non lo so. Ma lo ha portato in un centinaio di sale in più. Migliaia di biglietti in più. Il nostro mestiere serve a questo".
"A vendere illusioni".
"Non è l'essenza stessa del cinema?"
"Non pensa che un titolo così sia in qualche misura truffaldino? A che è servito riempire centinaia di sale in più, se la gente che entrava credeva di vedere una commedia con Jim Carrey..."
"È servito a vendere loro biglietti, ecco a cosa. E magari a uno su dieci il film sarà pure piaciuto. Come dovevano tradurlo?"
"Non so, per esempio L'eterna luce di una mente pura".
"Wow".
"Grazie".
"Forse un centinaio di biglietti in tutt'Italia riusciva a venderli anche lei. L'eterna luce di una mente pura, ma certo. Che razza di ipocriti".
"Prego?"
"Mi ha sentito benissimo. Voi, voi tutti che ci odiate, siete solo ipocriti. Per mille euro in più cambiereste il nome anche ai vostri figli".
"No, non credo".
"E per diecimila?"
"N-no, direi di no".
"E qual è il problema? Mi dica, qual è il problema se un film invece di avere un titolo noioso ne ha uno un po' più accattivante? Ha paura di trovare più gente quando entra in una sala?"
"Mi dica soltanto una cosa. Lei si ricorda un film del 2017, di Stephen Gaghan..."
"Buio assoluto".
"Con Matthew McConaughey, che fa il cercatore d'oro..."
"Ah, quello! Non male dopotutto".
"È lei che ha deciso di sottotitolare la versione italiana "La grande truffa"?"
"Sì, è successo".
"Mi può spiegare il perché?"
"Non c'è già arrivato da solo?"
"Ma..."
"Senta, il nostro non era un lavoro da dilettanti (continua su +eventi!)Non è che ci sedevamo in un angolo e tiravamo fuori bigliettini da un sacchetto. C'erano indagini di mercato precise. Le commissionavamo, le analizzavamo, e ne ricavavamo delle indicazioni preziose. Se le dicessi - e non lo confermo - ma se le dicessi che la parola "truffa" in un titolo italiano valeva da sola seimila biglietti in più..."
"Aveva almeno visto il film?"
"Crede che fosse un gioco? Crede che non li amassimo, noi, i film? Mio padre era un appassionato di nouvelle vague, lo sa?"
"Si è reso conto di aver rivelato il finale del film nel sottotitolo?"
"Beh, adesso, poi, il finale del film..."
"Se n'è reso conto o no?"
"Senta, lei non può capire certe volte la pressione. Me lo ricordo bene quel film, e le attese che aveva generato - era una storia pazzesca. Lo sa che lo doveva fare Michael Mann, a un certo punto? E poi è passato..."
"...a Spike Lee".
"Ed era un veicolo per McConaughey, che in quel momento andava fortissimo. Sembrava un colpo sicuro. Ci avevamo investito. Ma poi... a un certo punto si scopre che il regista è cambiato di nuovo, ed è questo... come ha detto che si chiama?"
"Gaghan. Ha scritto e diretto Syriana".
"Ecco, basta dirlo. Syriana. Fosse stato per me, l'avrei chiamato 40 Notti di Petrolio. Ma avrebbe floppato lo stesso. Ci facciamo dare un copia per farci un'idea, e scopriamo che ovviamente è un casino. Il tizio ci stava fottendo".
"In che senso?"
"Andava alla cieca, sapeva che sottoterra da qualche parte aveva una storia, ma non capiva dove cercarla. Ogni tanto tirava fuori qualche idea, ma non era roba del suo sacco. Qualche idea da David O. Russell, qualche pezzo fregato a Scorsese - come se Scorsese facesse materiale che si camuffa facilmente".
"Ma c'era pur sempre McConaughey".
"Altroché se c'era. Fin troppo. Spalmato in ogni fotogramma. Come a dire: pensaci tu. Una palese dichiarazione di inadeguatezza dietro la macchina da presa".
"Però il personaggio serafico di Édgar Ramírez è perfettamente complementare a quello del protagonista".
"Sì, vabbe', resta il problema di due ore di primi piani di McConaughey, che se fossero i primi anni Zero andrebbe benissimo, ma è un McConaughey con la pelata e i denti storti. Recensioni perplesse. Box office americano in picchiata. Dovevamo inventarci qualcosa, capisci?"
"Ma è una storia fantastica".
"Che ti posso dire, si vede che non bastava".
"Era un buon motivo per... per..."
"Avanti, dillo".
"Per spoilerarla?"
"Seimila biglietti in più, figliolo. Seimila biglietti".
"...di gente che si sarà sentita presa in giro e avrà pensato: non ci torno mai più al cinema".
"Lo crede davvero? Ma no, tornavano sempre. Quella era gente che al cinema ci andava, era qualcosa di più forte di loro. La fame di illusioni".
"Se è così, perché la ritrovo in bolletta e senza un mestiere?"
"È finita la gente".
"Ovvero..."
"Finita. Invecchiati o morti. I giovani guardano serie in tv, la fine era segnata. Abbiamo solo cercato di viverci finché abbiamo potuto. Non è quello che facevano tutti?"
"Cosa facevano tutti?"
"Non saprei, ero quasi sempre al cinema. Ma mi ero fatto questa idea che scavassero buche".
"Buche? E perché?"
"Per riempirle".
"Non capisco".
"Per sentirsi impegnati, professionali, indaffarati, e magari qualche volte per caso trovavate un po' d'oro e vi ripagavate la spesa. Ma il più delle volte l'oro lo gettavate voi. Non andava così con tutto, in quegli anni?"
"Si è fatto tardi, può tenere la bottiglia".
"Non buttavate un sacco di soldi dei genitori in startup che servivano sostanzialmente a percepire fondi per le startup? Non passavate anche voi il tempo a inventarvi titoli fantasiosi per i vostri progetti, per i vostri curricula?"
"È stato un piacere, addio".
"Cosa si aspettava di trovare salendo quassù, l'uomo che ha ucciso il cinema? Il cinema non muore, il cinema è tutto intorno, basta trovare qualcuno disposto a farsi..."
"Fregare".
"...raccontare una bella storia"
"Non è una bella storia se sveli il finale".
"Non mi sono mai piaciuti i finali. La vera magia del cinema è quando si spengono le luci, e la gente spegne il telefono, e al botteghino ti dicono quanti biglietti hanno venduto..."


Gold è al Cine4 di Alba alle 19:30 e 21:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 20:00, 22:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30. Non fate troppo caso al sottotitolo italiano.

sabato 6 maggio 2017

Il poeta, lo zingaro e il Padre

New Morning (1970)

(Il disco precedente: Dylan
Il disco successivo: Another Self Portrait).


Sono andato a vedere lo zingaro, che stava in un grande hotel. Mi ha sorriso quando mi ha visto arrivare, e ha detto: "Bene-bene-bene". La sua stanza era buia e affollata, le luci basse e offuscate, "Come stai?", mi ha chiesto; e io gli ho risposto lo stesso.

Di tutti i brani bizzarri e incongruenti di New Morning, il più strano resta Went to See the Gypsy. Per un attimo i versi tornano a essere lucidi e inconsistenti come nei momenti più enigmatici di John Wesley Harding. La melodia è inafferrabile, al punto che Al Kooper non riusciva a trovare un modo di arrangiarla: non è un giro armonico, non c'è una strofa o un ritornello, tutto gira intorno a un accordo che cambia ogni tanto, in modo prevedibile e tuttavia imprevisto, una specie di trance onirica. Come nei sogni degli adulti, non è che succeda un granché. Dylan sente di essere al cospetto dello Zingaro, e che ogni discorso sarebbe insoddisfacente. Tutto quel che sente è "Bene bene" e "Come stai?": Dylan risponde ripetendo la domanda. A quel punto lo Zingaro potrebbe ripetere "Bene", e il sogno si avviterebbe su sé stesso. Ma all'improvviso Dylan non è più lì: si ricorda che deve fare una telefonata. Se è il 1970, di sicuro deve telefonare a casa per sapere come stanno i bambini. Sembra che non riesca a pensare ad altro: la famiglia, i bambini, la vita è tutta qui. E poi di nuovo all'improvviso spunta dal nulla una ballerina: perché non sei più con lo Zingaro? Questo era il sogno dello Zingaro! Ritorna da lui. "Lui può tirarti fuori dal retro (He can move you from the rear), condurti lontano dalla tua paura, attraverso lo specchio. Lo ha fatto già a Las Vegas, lo può fare anche qui". Quindi almeno sappiamo che non siamo a Las Vegas. Ma siamo sicuramente in un sogno, perché - come capita nei sogni - indietro non si torna. Dylan ci prova: la porta è aperta, ma lo Zingaro se n'è andato. In compenso ha scoperto dov'è: in Minnesota. A quel punto può svegliarsi. Ha visto lo Zingaro. Non è che ci abbia parlato. Ma non c'era niente che ci si potesse dire, in fondo. Avrà funzionato?

Dylan non ha mai voluto incontrare Elvis Presley, da sveglio. Altri approcci con i divi di quell'era forse lo avevano intimorito (Jerry Lee Lewis era stato molto brusco). Non sarebbe stato difficile organizzare un incontro a Las Vegas o Graceland, ma cosa ne avrebbe guadagnato? A inizio anni '70 Presley non era ancora quell'entità più grande della vita e del rock'n'roll che sopravviveva fagocitando sé stessa. Dylan deve averci pensato. A un certo punto delle sessioni di New Morning voleva registrare finalmente Tomorrow is a Long Time, un suo brano dei tempi dei Witmark Demos che Elvis aveva ascoltato nella versione di Odetta e registrato in un disco del 1966, uno dei momenti opachi della sua carriera. Di nessuna cover Dylan si dichiarava più fiero che di quella di Elvis.


Non è curioso che nel 1970 gli capitasse di pensare più spesso al Re. Aveva venerato altri musicisti più o meno famosi, e aveva conosciuto altri cantanti caduti in disgrazia, ma solo a Elvis era riuscito il secondo avvento: lo strepitoso ritorno alla forma avvenuto nel Natale del 1968, dopo gli anni bui passati a girare pessimi film e registrare mediocri colonne sonore. Due anni dopo Elvis trionfava incontrastato nella Mecca che un tempo lo aveva respinto, Las Vegas. La domanda inconfessabile che grava sulla nebbia di Went to See the Gypsy non può che essere: potrò tornare anch'io, dal retrobottega al palcoscenico? Perché ultimamente non so più cosa sto facendo. La gente continua a comprare i miei dischi, ma io non mi riconosco più nelle mie canzoni. All'inizio era un gioco, ma adesso davvero non so più dove sono. Ci sarà un Nuovo Mattino, anche per me? Il primo titolo proposto da Dylan era molto diverso: Down and Out on the Scene, Derelitto sul palco. Una pessima idea, ancorché sincera.

È da un po' che Dylan si agita sul ring come un campione suonato. Dopo aver pestato come un fabbro per otto round, da qualche tempo ha iniziato a fare mosse veramente strane, a incassare colpi assurdi. Sulle prime abbiamo pensato che scherzasse, o che la tirasse in lungo per questioni personali - magari ha promesso all'impresario di far durare l'incontro fino al quindicesimo, va' a sapere. Dai, smettila Bob, lo sappiamo che sai fare meglio di così. New Morning è il momento in cui cala la maschera: qui Dylan non sta cercando di fare il cowboy o il crooner. Non sta fingendo, non sta scherzando coi suoi compari in cantina, non fa il buffone, non vuole allontanare un pubblico molesto o vincere una scommessa. In New Morning Dylan vuole ricominciare a fare sul serio. Vuole ritrovare sé stesso. Salvo che non ci riesce. Sé stesso non c'è più.

Lo vedi andare al tappeto e non sta fingendo: sembra proprio cotto.

New Morning - che è senz'altro un disco migliore di Self Portrait - può essere più deprimente da ascoltare. Se più che Dylan ti interessa la musica, è molto facile che tu ti chieda spesso: tutto qui?Qualche melodia graziosa (If Not For You), ma cantata e arrangiata in modo approssimativo, ai livelli dell'autosabotaggio; qualche esperimento potenzialmente interessante, ma lasciato a metà (If Dogs Run FreeThree Angels). Se invece più che la musica ti interessa Dylan, New Morning è uno snodo fondamentale - il diario dell'anno 1970. Uno dei due album che sceglie di raccontare in Chronicles I: l'altro è Oh, Mercy. Quello che accomuna due lavori registrati a vent'anni di distanza è una certa aria di falsa partenza: dovevano essere due ritorni in grande stile, per vari motivi non lo furono. Nessuna canzone di New Morning è diventata un vero classico, Dylan dal vivo ne ha suonate solo tre. Eppure è il disco che ha voluto raccontarci per esteso. Sappiamo che Dylan sta riscoprendo la sua identità ebraica; al funerale del padre, i famigliari stupiti si accorgono che il figlio famoso conosce le preghiere di rito; sappiamo che tre canzoni furono scritte per un musical di Archibald MacLeish in cui in realtà Dylan non credette mai molto. Sappiamo che Day of the Locusts racconta il disagio provato a Princeton, mentre in una giornata afosa attendeva che gli consegnassero una laurea ad honorem (dal prato saliva la "dolce melodia" di un frinire di cicale che forse gli ricordò l'organo stridente di Al Kooper, di nuovo alla corte di Dylan dopo aver fondato, tra gli altri, i Blood, Sweat and Tears). Sappiamo che non fu affatto contento di sentirsi definire "la coscienza turbata della giovane America", proprio in un momento in cui tra lui e la giovane America avrebbe voluto alzare uno steccato altissimo. Sappiamo un po' di cose e alcune ovviamente non tutte sono vere. Ma non è così difficile distinguerle, ormai.

Al telefono, Johnston mi chiese se stavo pensando di incidere qualcosa. Sicuro. Visto che i miei dischi vendevano ancora, perché non avrei dovuto inciderne di nuovi? Non avevo molte canzoni, ma c'erano quelle che avevo scritto per MacLeish. Potevo aggiungerne qualcun'altra e finire il lavoro in studio se proprio dovevo, e Johnston era impaziente di cominciare. Lavorare con lui era come mettersi al volante da ubriachi. (Chronicles I).

Per esempio: non può essere andata così.  È abbastanza improbabile che le sessioni di New Morning siano cominciate perché il produttore Bob Johnston aveva voglia di "incidere qualcosa". Non nella primavera del 1970, quando Johnston ha appena finito di remixare Self Portrait. Non siamo più nei primi anni Sessanta, non ha più nessun senso commerciale per un artista pubblicare due LP a distanza di pochi mesi - ora sarebbe una mossa autolesionista farsi concorrenza da solo. Eppure il grosso delle incisioni di New Morning, Dylan lo produce ai primi di giugno, proprio mentre SP arriva nei negozi e comincia a scalare le classifiche - perché malgrado tutto, la merda vendette bene; e le recensioni perplesse o perfide sarebbero arrivate solo nelle settimane successive.

Nel giro di una settimana ero agli studi Columbia di New York con Johnston al timone, convinto che tutto quel che incido io è fantastico. Come al suo solito. È sicuro che stiamo per fare il colpo grosso e tutto sta in piedi. Al contrario. Mai niente stava in piedi. Neanche dopo che una canzone era finita e registrata stava in piedi. 

In seguito Dylan ha più volte smentito di aver cominciato a registrare New Morning così presto per rimediare alla figuraccia rimediata con SP ("Non ho mai detto: Oddio, questo non piace - registriamone un altro"), e in un certo senso non si tratta di una bugia. Non era il giudizio altrui che temeva. Sapeva già di aver mandato fuori un disco sbagliato e no, nel 1970 non aveva ancora tutta questa voglia di trattarlo come un esperimento sociologico e lasciare che decantasse, alienando una frazione più o meno grande del suo pubblico. Col proseguire dell'estate le recensioni cominciavano a uscire, e a quel punto Dylan andò davvero in confusione, esasperando Al Kooper che si era ritrovato l'onere di lavorare agli arrangiamenti: il timoniere Johnston era assente, forse in ferie. Dylan, che era partito con l'idea di inserire arrangiamenti orchestrali come in Self Portrait, aveva scoperto che a critici e pubblico proprio non piacevano. Un giorno si era messo in testa di registrare una nuova versione di Blowin' in the Wind; la provò quindici volte; niente da fare. "Cambiava idea ogni tre secondi", dice Kooper, "alla fine lavorai come per tre album... Quando fu tutto finito, non lo volevo vedere più".

Ero appena arrivato a Woodstock dal Midwest, dal funerale di mio padre. Ad aspettarmi sul tavolo c'era una lettera di Archibald MacLeish, uno dei Poeti laureati d'America.

Per più di dieci anni Dylan non ha sentito la necessità di un padre. Aveva persino rinunciato al suo nome, troppo lungo e spigoloso, retaggio di uno dei pochi passati che non gli interessava evocare - negli anni della rincorsa al successo aveva preferito rivendicare uno zio pellerossa (inesistente) piuttosto che un padre ebreo. "Probabilmente valeva cento volte quel che valevo io, ma non mi capiva". Per molto tempo non avevano avuto niente da dirsi: Dylan scriveva canzoni per una generazione diversa. Canzoni ottime, ma incomprensibili ai padri. Poi un giorno il padre all'improvviso non c'è stato più, e Dylan ha smesso di scriverle. Magari è solo una coincidenza. Ma l'anima inquieta che si dibatte tra i solchi di New Morning - e tra le pagine dell'omonimo capitolo di Chronicles I - è un uomo solo davanti ai suoi problemi, che ha bisogno di un consiglio e non ha nessuno a cui poterlo chiedere. Non al padre, non allo Zingaro, non a Johnston il timoniere, e nemmeno ad Archibald MacLeish, poeta modernista e bibliotecario del Congresso durante l'amministrazione Roosvelt. Il capitolo comincia con l'immagine della sua lettera su un tavolo. Dylan l'ha aperta di ritorno a Woodstock, dopo aver seppellito il padre. Più chiaro di così non potrebbe scrivercelo: Dylan è in cerca di figure paterne, e MacLeish, a differenza di Abram Zimmerman, conosceva le sue canzoni. Era rimasto colpito dall'immagine di Ezra Pound e T.S. Eliot che lottano nella torre del capitano del Titanic, in Desolation Row. Per MacLeish quei due nomi non erano solo lettere dorate sulle coste dei volumi di poesia: li aveva conosciuti di persona. E adesso voleva conoscere Dylan: gli voleva proporre di lavorare con lui a un musical ispirato al racconto Il Diavolo and Daniel Webster, la storia di un americano che fa un patto col demonio. Ma Dylan di demonio non voleva sentir parlare. Non in quel momento della sua vita, almeno.

Il resoconto di Dylan dei due incontri con MacLeish è appena un po' meno elusivo del sogno con lo Zingaro: MacLeish gli parla di letteratura, lo interroga sulle sue letture (Dylan è abbastanza onesto sulle sue lacune), lo conforta sulle sue doti di poeta. Quanto al musical sul diavolo, Dylan afferma di aver capito subito che non era materiale per lui. "Era un'opera cupa. Dipingeva un mondo paranoico, fatto di colpa e paura, in uno stato di perenne oscuramento, a testa bassa contro l'era atomica, pieno di inganni e slealtà. Non c'era molto da dire né da aggiungere". In fondo si sarebbe potuto dire la stessa cosa del lato B di Bringing It All Back Home - MacLeish non aveva pensato a lui per caso. Invece di ritorno a casa, Dylan comincia a scrivere inni alle gioie della vita rurale: New Morning, Time Passes Slowly, e un brano che più di ogni altro assomiglia a una preghiera ebraica: Father of Night. Il titolo glielo aveva proposto MacLeish, pensando a Satana: ma il Padre della canzone è un Ente benigno "che porta via l'oscurità". Quando nel successivo incontro MacLeish gli chiede la ragione di tanto ottimismo, Dylan non trova le parole (continua sul Post)

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