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domenica 22 aprile 2018

La violenza a scuola e l'effetto bulldog


Gli insegnanti italiani sono sotto assedio, probabilmente lo avete già letto da qualche parte. I casi di bullismo nei loro confronti si moltiplicano. A Ferrara i genitori di un alunno sovrappeso hanno preso a testate un insegnante di educazione fisica; a Bari i genitori di un alunno hanno picchiato addirittura un preside. Nel frattempo su Youtube si moltiplicano i video in cui i docenti vengono ripresi e ridicolizzati, al punto che il ministro Fioroni ha dovuto ribadire con una circolare il divieto di portarsi telefonini in classe. Esatto, Fioroni.

Era ministro dell'istruzione nel 2007.

Tutte le notizie che ho linkato fin qui risalgono alla primavera del 2007. I "telefonini", quelli con i tasti di plastica, producevano già foto e video di qualità discutibile, ma sufficiente a compromettere il quadrimestre di uno studente e la reputazione di un insegnante. Instagram non esisteva; Facebook in Italia era praticamente sconosciuto; Youtube funzionava da due anni e quella ondata primaverile di allarmismo scolastico ci dimostra che stava già diventando mainstream. I siti dei più importanti quotidiani italiani andavano già in cerca di video amatoriali a base di professori sbeffeggiati: avevano già l'abitudine di ripubblicarli, sovrapponendo il loro logo editoriale, aggiungendo un po' di pubblicità e qualche corsivo moralista: Dove Andremo A Finire?

Oggi lo sappiamo: da nessuna parte in particolare. Siamo ancora qui.

Qualche insegnante è andato in pensione, qualcuno un po' più giovane lo ha rimpiazzato, e ogni tanto i giornalisti si rimettono a frugare su Youtube e scoprono che c'è un'emergenza, la solita. Si è rotto il patto educativo! proclama venerdì il Corriere.  Un prof picchiato ogni quattro giorni, echeggia Repubblica. "Ventisei episodi diventati pubblici in centonove giorni".

Peccato che tra questi episodi sia ancora una volta inclusa la storia della "professoressa legata alla sedia con lo scotch" di Alessandria, che non è stata né picchiata né tantomeno legata a una sedia (con lo scotch? quanti rotolini servirebbero a immobilizzare un adulto? Come si fa a mandare in giro roba del genere?) Peccato che nel bollettino di guerra pubblicato da Repubblica giovedì siano stati cucinati nello stesso calderone fatti di cronaca successi in mesi diversi, alcuni nemmeno a scuola, in cui i prof spesso non sono né vittima di percosse né di molestie: a volte sono quelli che le denunciano. Peccato che il video che rimbalzava venerdì sulle homepage dei quotidiani, dove l'ennesimo stronzetto minaccia un professore di scioglierlo "nell'acido" (paura!) sia dell'anno scorso. Ma avrebbe potuto essere anche di due, tre, undici anni fa. Ormai viviamo in un eterno presente. Colpa dei social, del deficit di attenzione, oppure semplicemente su Youtube le date sono scritte in piccolo e qualche giornalista trova comodo non farci caso.

È l'effetto bulldog: a volte basta un niente, una notizia che per qualche motivo riesce ad attirare l'attenzione (in un parco un bulldog morde un bambino). In redazione si accorgono che funziona e decidono di insistere sul genere, si mettono a cercare: ci sono stati altri incidenti simili, altri bulldog mordaci? Va bene anche se non sono bulldog, va bene anche se non hanno morsicato bambini. Nei giorni successivi le aggressioni canine non aumenteranno, ma invece di scivolare indisturbate in fondo alla cronaca locale finiranno tutte in prima pagina e il lettore si convincerà che esiste un'emergenza bulldog. Bisogna anche ammettere che è primavera, la politica è in stallo, l'emergenza immigrazione è improvvisamente sparita dal radar (per una curiosa coincidenza, tutti i giornalisti che la propagavano sui canali Mediaset sono stati ridimensionati) la guerra mondiale in Siria non ingrana, magari anche i bulldog nei parchi sono un po' lenti di riflessi e così, in mancanza di bimbi morsicati e bombardamenti seri, la maleducazione scolastica sta avendo il suo momento di gloria.

Il bullismo tira – pazienza se in realtà "bullismo" vuol dire un'altra cosa, ormai per i giornalisti italiani lo spettro del "bullismo" si estende dalla semplice maleducazione all'omicidio a sfondo razziale. Il bullismo ci smuove qualcosa dentro: siamo tutti convinti di esserne stati vittima, siamo tutti convinti di poterla far pagare a qualcuno. Quel ragazzino petulante, non ti viene voglia di prenderlo a schiaffoni? Quel prof immobile, non lo licenzieresti? Su Youtube trovi tutti i video che vuoi (ci sono canali dedicati), non devi neanche pagarci i diritti. In cinque minuti puoi sbattere in home uno spettacolo che attira lettori dalle idee radicalmente opposte: chi difende gli insegnanti e chi gode a vederli svillaneggiati (oppure fantastica di trovarsi al loro posto, ma dotato di arcani poteri che gli consentirebbero di sospendere alunni per direttissima, bocciarli ad aprile anche se gli scrutini sono in giugno). Gli insegnanti stessi spesso sono i più voraci lettori e propagatori di notizie e video del genere, convinti che una pubblica umiliazione possa servire a denunciare la triste condizione della classe docente eccetera. E non dimentichiamo il target più difficile per i giornali: gli studenti stessi, a cui questa roba indubbiamente piace. Magari se trovano su Repubblica e il Corriere le stesse scemenze che sono virali su Youtube, staranno un po' più su Rep e sul Corriere e un po' meno su Youtube... e pazienza se si scatena l'effetto emulazione.

Già, l'emulazione.

'Ma mi dia retta, s'inginocchi, vedrà che svoltiamo'.
Il video più virale di questi giorni, quello del "chi è che comanda? s'inginocchi", ha davvero tutta l'aria di un teatrino messo in scena proprio per ottenere like, condivisioni, e magari un giro d'onore sui quotidiani. I giornalisti che ci fanno su la morale sono a ben vedere gli istigatori, e gli unici che alla fine ci guadagnano: il ragazzo sarà sospeso, ormai è diventata una questione di Stato, ma il video è sempre lì a portata di clic, e la pubblicità continua a scattare e a portare qualche centesimo nelle tasche di chi chiede a gran voce la bocciatura dei ragazzi e magari ne approfitta per giudicare la professionalità di insegnanti inquadrati per pochi secondi, più che sufficienti ovviamente per farsi un'idea dello stato della scuola pubblica. Susanna Tamaro se la prende (novità!) con Jean-Jacques Rousseau; Massimo Recalcati, dimmi qualcosa di nuovo, con il "Sessantotto". I loro pezzi hanno davvero la qualità dei classici, nel senso che resistono a qualsiasi evoluzione dei tempi e non smettono di dire quel che devono dire. Purtroppo tutto quel che devono dire è il solito Dove Andremo A Finire, una domanda che ci affascina e ci stucca sin dai tempi di Marco Porcio Catone (Continua sul Post).

Laudatio temporis acti, la chiamavano. Già a quei tempi, alla notizia che qualche studente era stato insolente col suo maestro, una antica Tamaro avrebbe reagito ricordando le qualità pedagogiche della verga, mentre l’equivalente latino di Recalcati – più vicino alle rivendicazioni popolari – avrebbe suggerito di migliorare la condizione dei docenti (anche allora spesso coincidente con la schiavitù): entrambi comunque avrebbero concordato che una volta non era così, eh no, ai tempi delle Guerre Sannitiche c’era più rispetto, nelle aule non volava una mosca.

‘Se non si vuole inginocchiare, potrebbe almeno darmi in ceffone. Finiamo sul canale dei ceffoni, c’è una compilation di ceffoni scolastici che ha 3 milioni di visualizzazioni… oh prof ma mi ascolta? Le sto parlando del nostro futuro’.

Chi è davvero convinto che le scuole del passato fossero ambienti più tranquilli e rispettosi tende a considerare la propria individuale esperienza scolastica un campione statistico rilevante: spesso è gente che ha fatto un buon liceo, dove di mosche magari ne volavano poche e gli echi dei tafferugli nel più vicino istituto professionale arrivavano di molto attutite. Però, ecco, quel buon liceo avrebbe dovuto anche insegnarci a mettere in discussione i luoghi comuni. Do un’occhiata alla mensola alle mie spalle: al primo colpo trovo uno dei primi libri di Sciascia, Le parrocchie di Regalpietra (1956), lo apro a una pagina a caso. Trovo “trenta ragazzi sporchi arruffati” che anche in presenza di un ispettore scolastico “continuano a mormorare e a litigare tra loro”. Nemmeno del parroco che insegna religione hanno rispetto. “Qualche bestemmia ronza nell’aula, ma il prete non finge come me di non sentire. Promette il fuoco eterno. Ridono. Diventa scarlatto di collera. Son costretto a gridare anch’io il mio inutile rimprovero”.

È davvero il primo libro che mi è venuto in mano. E siccome descrive un territorio che non riesce a liberarsi dal retaggio del Ventennio, mi torna in mente il solito Benito Mussolini che già si portava il coltello alle elementari, e adolescente in un collegio di Faenza rischiò l’espulsione perché lo aveva usato contro un compagno. (Nota: la rischiò soltanto! Non c’è proprio più rispetto. Dove andremo a finire?) Ma il tempo gli riservava un’orribile vendetta: un giorno sarebbe diventato maestro anche lui – con esiti altalenanti. A Tolmezzo si ritrova “una seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo […] Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare”. Imporre a quaranta milioni di italiani una dittatura si sarebbe rivelato un compito più alla sua portata.
Che s’ha da fare pur di non tornare dietro quella cattedra.

Le scuole italiane hanno un sacco di problemi, alcuni strutturali. Tra questi, la maleducazione degli studenti non costituisce una particolare emergenza. È solo la notizia che per qualche motivo ha forato l’attenzione in questo momento. Gli studenti maleducati ci sono da sempre, e non erano molto meno maleducati anche quando si potevano picchiare (è uno dei motivi per cui abbiamo smesso: non funzionava). L’unica sensibile novità è che oggi la maleducazione scolastica è davanti agli occhi di tutti: in attesa delle videocamere appese alle pareti delle aule (arriveranno) la scuola va in onda a tutte le ore su Youtube, su Whatsapp, al punto che viene quasi voglia di prendersela non con il “bullismo”, ma con chi lo propaga, lo rende virale, magari convinto di contrastarlo mentre ci sta soltanto speculando un po’ sopra. Quei video che gli insegnanti condividono nell’illusione di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà della loro professione; che i loro studenti ormai organizzano nella speranza di guadagnarsi quei cinque minuti di viralità che dovrebbero valere il prezzo di una bocciatura; quei video alla fine si rivelano una fregatura per entrambe le categorie: uno spettacolino di costo irrisorio montato in homepage per un pubblico annoiato che spesso finisce per invocare quello che la scuola pubblica non può dare (ma la privata sì): il frustino.

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